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Polinice ed Eteocle, la guerra di Tebe

La tragica storia di Polinice ed Eteocle, fratelli in lotta per il trono di Tebe, tra maledizioni, guerre, eroi caduti e il coraggio di Antigone: un epico racconto di destino e vendetta nella mitologia greca.

Polinice ed Eteocle

Una sera, però, mentre Edipo, re di Tebe, banchettava con suo figlio Polinice alla splendida tavola d’argento un tempo appartenuta al loro antenato Cadmo, accadde qualcosa di inaspettato. Il giovane, nel tentativo di onorare il padre, gli porse una coppa d’oro colma di vino, invitandolo a dimenticare le fatiche e a gioire. Ma Edipo impallidì: riconobbe subito quell’oggetto come appartenuto a Laio, il padre che egli stesso aveva inconsapevolmente ucciso. Senza lasciare al figlio il tempo di scusarsi, Edipo lo respinse con durezza, dicendo che sarebbe bastata un po’ più di attenzione per evitare di riaprire una ferita tanto profonda. Gli lanciò una maledizione per cui non sarebbe stato concesso a Polinice di dividere pacificamente i beni con suo fratello Eteocle. Alla fine il duello sarebbe stato mortale per entrambi.

Dopo la morte del padre, i due fratelli stabilirono di governare Tebe ad anni alterni. Tuttavia, allo scadere del primo anno, Eteocle rifiutò di cedere il trono e costrinse Polinice all’esilio. Polinice si recò allora ad Argo, città governata dal re Adrasto, figlio di Talao, sovrano dalla voce dolce come il miele. Il giovane tebano portava con sé il peplo e la collana che Cadmo aveva offerto in dono nuziale ad Armonia. Proprio quel giorno giunse ad Argo anche un altro esule: Tideo, figlio di Eneo, re di Calidone, e della regina Peribea, che Eneo aveva sposato dopo la morte della prima moglie, Altea. Peribea era stata conquistata come bottino di guerra durante il saccheggio della città di Olene, ma Eneo si era innamorato di lei e l’aveva fatta regina. Tideo, però, aveva due zii paterni — Agrio e Mela — che tramavano contro il re assieme ai loro figli. Quando Eneo cominciò a invecchiare, Tideo lo difese, ma nello scontro uccise alcuni dei cugini e fu costretto a fuggire, trovando rifugio ad Argo.

Una notte, mentre vagavano armati, con i simboli delle rispettive stirpi sugli scudi, Polinice e Tideo si trovarono l’uno di fronte all’altro, senza riconoscersi. Scoppiò una lite, poi uno scontro fisico. Fu re Adrasto in persona a intervenire per dividerli. Una volta calmati gli animi, il re osservò gli emblemi sugli scudi: un leone e un cinghiale. Subito ricordò una profezia ricevuta tempo addietro, secondo cui le sue figlie avrebbero sposato un leone e un cinghiale. Allora comprese che i due giovani erano coloro cui il destino aveva destinato le sue figlie.

Li accolse dunque con benevolenza, offrendo in sposa le figlie: Polinice sposò Argia, Tideo Deipile. In seguito, Adrasto giurò che avrebbe radunato un’armata di valorosi per aiutarli a riconquistare i loro regni. Il primo obiettivo sarebbe stato Tebe: sconfiggere Eteocle e restituire il trono a Polinice.

La collana di Armonia

Tra i più valorosi guerrieri argivi vi era Anfiarao, un uomo dotato non solo di coraggio e abilità in battaglia, ma anche del dono della divinazione. Era anch’egli di stirpe regale e, in passato, aveva avuto un aspro conflitto con il re Adrasto a causa della spartizione del potere. Lo scontro si era concluso tragicamente: Anfiarao aveva ucciso Talao, padre di Adrasto. Quest’ultimo, per sfuggire alle conseguenze, si era rifugiato a Sizione, presso il nonno materno. Poiché questi non aveva figli maschi, Adrasto era diventato re della città.

Eppure, il legame con Argo non si era mai spento nel cuore di Adrasto. Quando giunse il momento, decise di fare ritorno in patria, dove riuscì a riconciliarsi con Anfiarao. Per suggellare la pace, gli diede in sposa la propria sorella, Erifile, e i due uomini si giurarono fedeltà: qualora fosse nato un nuovo contrasto, si sarebbero affidati al giudizio imparziale della donna, anziché tornare alle armi. Erifile, unita da profondo affetto a entrambi, avrebbe deciso con giustizia.

Quando Adrasto decise di muovere guerra contro Tebe per restituire il trono a Polinice, Anfiarao si oppose con forza. In quanto indovino, prevedeva che quella spedizione sarebbe finita in tragedia: solo Adrasto sarebbe tornato vivo. Dichiarò quindi che non avrebbe preso parte alla guerra, causando grande turbamento tra gli Argivi, combattuti tra il senso del dovere e il timore della morte. Anche Polinice ne fu profondamente preoccupato: senza Anfiarao, la spedizione rischiava di fallire.

Polinice scoprì che Erifile aveva il potere di dirimere la contesa. Se Anfiarao non poteva essere convinto, forse si poteva persuadere sua moglie. Decise allora di offrirle un dono preziosissimo: la collana di Armonia, ereditata dalla sua stirpe. Disse che quel gioiello, forgiato da Efesto per la splendida Armonia, era degno solo di una donna altrettanto bella. In cambio, chiedeva la possibilità di tornare nella sua terra, come da patto.

Erifile, incantata dallo splendore della collana, accettò. Quando venne il giorno della partenza per Tebe, Adrasto radunò i guerrieri. Anfiarao continuò a rifiutarsi, dichiarando che la guerra avrebbe portato solo dolore. Ma, in base al giuramento fatto, si dovette rispettare il giudizio di Erifile. La donna, in veste di arbitro, ordinò la partenza di Anfiarao, dichiarando che la sorte avrebbe arriso a eroi tanto valorosi.

Anfiarao, sconcertato, comprese di essere stato tradito. Riconobbe al collo della moglie la collana fatale e, pur legato al giuramento, fu costretto a obbedire. Quella sera, convocò i suoi figli, Alcmeone e Amfiloco. Confessò che non sarebbe tornato vivo e che la colpa era della loro madre, la quale aveva preferito un gioiello alla sua vita. Li fece giurare che l’avrebbero vendicato, uccidendo Erifile e guidando una nuova spedizione contro Tebe.

Disse loro che, se avessero marciato ancora una volta alla testa di un’armata, avrebbero avuto la vittoria, anche se ciò li avrebbe costretti a vagare a lungo, esuli tra i popoli della Grecia. Ma se avessero saputo adattarsi ai costumi delle terre che li avrebbero ospitati, un giorno la sorte avrebbe sorriso anche a loro.

La guerra tra Argo e Tebe

La spedizione degli Argivi prese il via, guidata da sette eroi scelti tra i più valorosi dell’intera Grecia. In testa marciavano Adrasto, re di Argo, e Anfiarao, il guerriero veggente. A loro si univa Capaneo, figlio di Ipponoo, un uomo dalla forza straordinaria che non mostrava rispetto né per gli uomini né per gli dei.

Il quarto a unirsi era Ippomedonte, figlio di Aristomaco, un gigante per statura e coraggio. Questi quattro provenivano da Argo, ma accanto a loro si schieravano altri tre combattenti di origini diverse: Polinice, esule tebano in cerca del suo trono; Tideo, il calidonio, piccolo di statura ma feroce in battaglia; e Partenopeo, guerriero dell’Arcadia, noto per la sua forza e crudeltà.

Giunti alle porte di Tebe, gli eroi inviarono Tideo come messaggero: a lui spettava il compito di intimare a Eteocle di restituire il potere usurpato al fratello. Ma Eteocle rifiutò sdegnosamente. Eteocle ordinò a cinquanta uomini di tendere un’imboscata e ucciderlo. Il tentativo fallì: il calidonio, infuriato, ne uccise quarantanove, lasciando in vita un solo sopravvissuto perché potesse tornare in città e raccontare la disfatta. Una volta rientrato al campo, Tideo riferì il fallimento della missione diplomatica.

La città di Tebe era protetta da sette porte, ciascuna fiancheggiata da alte mura. Gli Argivi disposero i loro campioni: Adrasto si posizionò alla porta Ogygia, Anfiarao alla porta Homoloide, Capaneo alla porta Proetide, Ippomedonte alla porta Crenea, Polinice alla porta Estiaea, Tideo alla porta Neiste e Partenopeo alla porta Elettra.

All’interno delle mura, Eteocle si preparava alla difesa. Assegnò a ciascuna porta un comandante e si rivolse all’indovino Tiresia per chiedere consiglio. Il veggente dichiarò che la città avrebbe potuto salvarsi solo con un sacrificio umano: Ares, dio della guerra, esigeva il sangue di Menecèo, figlio di Creonte. Quando il giovane seppe della profezia, non esitò. Senza alcun tentennamento, corse sotto le mura, estrasse la spada e si trafisse il petto.

Nel primo assalto, però, gli assediati vennero respinti. Fu allora che Capaneo, colmo di tracotanza, si avvicinò alle mura con una scala, deciso a superarle. Gridò che nemmeno gli dei avrebbero potuto fermarlo, poiché la sorte di Tebe era già segnata. Ma l’orgoglio eccessivo fu punito: Zeus stesso scagliò un fulmine che lo colpì in pieno, facendolo precipitare al suolo, fulminato.

La battaglia continuò con furore. Gli eserciti erano stremati, incapaci di prevalere l’uno sull’altro. Si decise allora di risolvere il conflitto con un duello singolare tra Eteocle e Polinice, i due fratelli in lotta per il potere. Entrambi accettarono, forse dimentichi della maledizione paterna.I primi colpi furono rapidi, poi divennero sempre più violenti, più ravvicinati. Infine, due urla simultanee squarciarono il silenzio: entrambi si erano trafitti mortalmente nello stesso istante.

Così si compì la profezia di Edipo: i figli si erano uccisi a vicenda, suggellando con il sangue l’odio fraterno e la vanità delle ambizioni umane.

La vittoria di Tebe

Nemmeno il duello tra i due fratelli fu sufficiente a porre fine alla guerra: con la morte simultanea di Eteocle e Polinice, il conflitto riesplose con rinnovata ferocia, alimentato dall’odio e dall’esasperazione che ormai consumavano entrambi gli schieramenti. Ma lentamente, il destino sembrò piegarsi a favore dei Tebani.

Alcuni guerrieri della città si distinsero per il loro valore. Ismaro, figlio di Stafilo, riuscì a uccidere Ippomedonte, figlio di Poseidone. Poco dopo, Melanippo, altro tebano di sangue nobile, colpì a morte Tideo, trafiggendolo al ventre e lasciandolo a terra, ferito gravemente e coperto di sangue.

Atena, dea protettrice di Tideo, ottenne da Zeus un farmaco capace di donare l’immortalità e discese sulla Terra per salvarlo. Ma Anfiarao, sdegnato dall’idea che un uomo tanto violento e impetuoso potesse diventare immortale, ideò uno stratagemma per impedirlo. Sfida Melanippo e, dopo averlo decapitato, portò la sua testa al morente Tideo. Alla vista del volto del suo uccisore, Tideo fu travolto dall’ira. Si gettò sulla testa mozzata, la squarciò con i denti e ne divorò il cervello. Atena, giunta in quell’istante, rimase inorridita davanti a tale brutalità. Giudicandolo indegno delle grazie divine, voltò le spalle portando via con sé l’ambrosia.

Quando Tideo si rese conto di aver perso per sempre l’occasione di ottenere l’immortalità, la sua rabbia cedette al rimpianto. In un ultimo atto di supplica, chiese almeno che il dono fosse concesso a suo figlio, Diomede. Ma Atena era ormai troppo lontana per udire.

Nel frattempo, Anfiarao era stato individuato tra la mischia dal tebano Periclímeno, che lo inseguiva con ferocia. Zeus, per salvare il suo fedele veggente, intervenne direttamente: scagliò un fulmine che aprì una voragine nella terra, facendo sprofondare il carro di Anfiarao insieme al suo auriga, Batone. L’indovino fu così trasportato nel regno dei morti, ma non vi conobbe la fine: Zeus gli concesse l’immortalità.

Dei sette capi Argivi, solo Adrasto era ancora in vita. Ormai consapevole della sconfitta, decise di fuggire. Si salvò grazie al suo destriero dal manto nero, Arione, cavallo leggendario dalla velocità prodigiosa. Secondo il mito, Arione era nato dall’unione forzata di Poseidone e Demetra: la dea, per sfuggire al dio, si era trasformata in giumenta, ma lui, mutatosi in stallone, la raggiunse. Da quell’unione mitica nacque Arione, cavallo impareggiabile per forza e bellezza. Arione fu donato da Poseidone a un re della regione, poi passò a Eracle, che ne fece il suo destriero in numerose imprese. Infine, fu affidato ad Adrasto, che con lui fuggì da Tebe e riuscì a salvarsi.

Con la ritirata di Adrasto, la guerra si concluse definitivamente. Eteocle era morto, e il suo erede, Laodamante, era ancora in fasce. Il governo della città fu affidato al vecchio Creonte, che assunse la reggenza. Il nuovo sovrano ordinò di lasciare insepolti i corpi dei nemici, ritenuti traditori della patria. Tra questi anche Polinice, nonostante fosse stato un principe di Tebe. Una decisione così dura, forse comprensibile per le sofferenze subite, apparve però a molti ingiusta e crudele.

Tra coloro che si opposero con forza vi fu Antigone, figlia di Edipo e sorella di Polinice. Spinta dalla pietà familiare, disobbedì agli ordini del re e, di notte, trafugò il corpo del fratello per dargli sepoltura. Quando Creonte scoprì l’accaduto, ordinò il suo arresto. Dopo un violento confronto, la condannò a essere sepolta viva.

Ma l’ira del re e la sua ostinazione non durarono a lungo. Adrasto, affranto e determinato, si recò ad Atene, presso Teseo, per chiedere giustizia e degna sepoltura per i compagni caduti. Come segno di supplica, posò sull’altare della Pietà il ramo sacro degli umiliati e attese la risposta. Teseo, commosso, accettò. Insieme ad Adrasto e ai suoi guerrieri, marciò su Tebe. Con la sola minaccia delle armi, ottenne che i corpi degli Argivi fossero restituiti. Furono innalzati sette tumuli funerari, uno per ciascuno dei condottieri caduti. Solo Adrasto e Anfiarao mancarono: il primo era vivo, il secondo scomparso nel sottosuolo.

Adrasto osservava in silenzio il rogo. Il suo sguardo si soffermò a lungo sul tumulo eretto per Anfiarao, il compagno perduto, e lo ricordò con parole piene di stima.

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