Alcmeone uccide la madre
Dopo la vittoria contro Tebe, gli Argivi fecero ritorno in patria, dove furono accolti con grandissimi onori. Il più celebrato fu Alcmeone, che aveva dimostrato di essere degno figlio di Anfiarao. Tuttavia, egli non gioiva: notte e giorno era tormentato dal pensiero della promessa fatta al padre, ancora non mantenuta di uccidere sua madre.
Alcmeone aveva compreso che le accuse di suo padre erano fondate. Il tradimento bruciava nella sua anima, e la decisione fu presa. Ma prima, volle interrogare l’oracolo di Apollo. Giunto a Delfi, chiese al dio se fosse davvero lui il destinato a fare giustizia, o se qualcun altro potesse compiere quel terribile compito. Apollo rispose che spettava a lui: il destino vuole che siano i figli a lavare le colpe dei genitori.
Tornato ad Argo, Alcmeone chiese di incontrare la madre. Quando fu al suo cospetto, estrasse la spada e le trafisse il petto. Ma non appena il sangue macchiò i suoi abiti, apparvero le Erinni. Lo circondarono, nere e terribili, mentre ancora stringeva la lama insanguinata. Alcmeone, colto dal terrore, non osò parlare. Una delle dee prese la parola e sentenziò che dal delitto appena compiuto sarebbe derivato un destino funesto: lo spirito della madre già invocava vendetta, e le Erinni lo avrebbero perseguitato senza tregua.
Le Erinni gli ricordarono che la sua colpa sarebbe ricaduta sulla sua stirpe. Alla domanda di Alcmeone se vi fosse salvezza per sé, le dee risposero:“No. Le colpe dei genitori sono le più gravi per i figli. Non concedono scampo. Non ammettono redenzione.”
Alcmeone e Anfiarao
Dopo di ciò, le Erinni si dileguarono. Tutto sembrava tornato come prima: Alcmeone stava ancora ritto, con la spada stretta nella mano, i vestiti intrisi di sangue, e il corpo senza vita di sua madre disteso davanti a lui. Eppure, doveva essere trascorso molto tempo: il cielo, ormai oscuro, annunciava che era calata la notte fonda.
Si avvicinò a una finestra e vide le case e i templi della sua città immersi nella luce pallida e spettrale della luna. Un pensiero lo assalì: forse non c’era altra via di scampo dalla condanna ineluttabile che gravava su di lui, se non la morte stessa.
Poi, il ricordo del padre gli affiorò alla mente. L’aveva vendicato, pagando un prezzo altissimo. Ora il suo spirito dimorava nell’Oltretomba, ma forse, anche da laggiù, avrebbe potuto offrirgli un ultimo consiglio. Rivolgendosi alla Madre Terra e a Dioniso, il più alto tra gli dèi dell’aldilà, Alcmeone li implorò di evocare l’ombra di Anfiarao, affinché potesse parlargli per l’ultima volta. La sua supplica fu accolta. La voce del padre risuonò nella sala e, dopo un momento di silenziosa commozione, Alcmeone lo chiamò, rivendicando con dolore ma anche con fierezza il compimento della vendetta: grazie a lui, ora l’anima di Anfiarao era libera, finalmente pacificata. Tuttavia, per ottenere questa giustizia, egli stesso si era caricato di un fardello insostenibile.
Ma l’ombra non gli diede una risposta diretta. Rievocò piuttosto una promessa fatta molto tempo prima da Adrasto, re di Argo: quando Tideo, esule e supplice, si era presentato a lui, aveva giurato di ricondurlo in patria. Tuttavia, non aveva potuto mantenere la parola, poiché Tideo era morto combattendo con valore contro i Tebani. Ma il figlio di Tideo, Diomede, era ancora in vita, giovane e forte. Alcmeone avrebbe dovuto, disse Anfiarao, compiere un atto di giustizia: recarsi all’alba da Diomede e offrirgli aiuto per tornare a Calidone, la sua terra d’origine, affinché riavesse l’onore che spettava alla sua stirpe reale.
Alcmeone non comprese tutto appieno, ma ciò che contava era che ora sapeva cosa fare. Aspettò l’alba, e quando il primo chiarore del giorno sfiorò l’orizzonte, si mise in cammino per cercare Diomede.
Almeide e Diomede
Quando i due si riunirono, Alcmeone e Diomede, si misero in cammino verso Calidone e l’Etolia. Per giungervi, dovevano innanzitutto attraversare la Focide. Ogni notte, immancabilmente, le Erinni ricomparivano, tormentando l’animo di Alcmeone. Una notte, tra i sussurri del vento, gli ricordarono che quella terra un tempo era stata conquistata da Foco, uno dei nobili figli di Eaco, re di Egina, e che da lui aveva preso il nome.
Foco, però, era poi tornato nella sua patria, dove lo attendeva un destino crudele: i suoi fratellastri, Telamone e Peleo, invidiosi della sua bravura nelle gare atletiche, gli tesero un agguato. Telamone lo colpì alla testa con un disco, mentre Peleo lo finì alle spalle con un colpo d’ascia. Ma neppure loro sfuggirono alla punizione: furono costretti a lasciare Egina, condannati all’esilio per il delitto commesso. Telamone trovò rifugio a Salamina, Peleo in Tessaglia.
Anche loro, come Alcmeone, erano fuggiaschi. Il loro destino era specchio del suo: chi versa il sangue dei familiari, ovunque vada, trova solo l’inquietudine. Non esiste terra al mondo che possa offrire pace all’assassino.
Nella Focide sorgeva Delfi, la sede sacra dell’oracolo di Apollo. Alcmeone decise di tornarvi per interrogare ancora una volta il dio. Voleva sapere se vi fosse un modo per liberarsi dall’abbraccio soffocante delle Erinni, se da qualche parte esistesse un luogo dove esse non potessero raggiungerlo. Solo Apollo, che tutto conosceva, poteva indicargli la via.
Gli avevano raccontato che, molto tempo prima, al tempo del regno di Crono, gli uomini conducevano un’esistenza beata, priva di fatica e dolore. In alcune isole lontane, ai confini del mondo, quell’armonia perdurava ancora. Alcmeone era disposto ad affrontare qualsiasi pericolo pur di giungervi. Chiese dunque al dio di aiutarlo: dopotutto, era stato proprio l’oracolo a ordinargli il matricidio. Ora chiedeva in cambio la salvezza.
Ma la risposta dell’oracolo fu enigmatica e terribile: nel momento stesso in cui aveva ucciso sua madre, ogni terra sotto il sole era divenuta per lui contaminata. L’unico luogo dove avrebbe potuto trovare pace sarebbe stato un lembo di terra che, al momento del delitto, ancora non esisteva, non era stato toccato né riscaldato dai raggi del sole.
Il destino di Diomede
Il viaggio dei due eroi proseguì. Dopo aver attraversato la Focide, giunsero in Etolia. Diomede, felice di rivedere la patria dei suoi antenati, raccontò ad Alcmeone come suo padre, Tideo, ne fosse stato scacciato per aver ucciso gli otto figli di suo zio Meleagro. Tuttavia, spiegò che Tideo aveva agito per giusta causa: quei giovani avevano ordito un complotto contro Eneo, padre di Tideo e nonno di Diomede, per usurparne il trono.
Il crimine commesso da Tideo era grave e lo aveva costretto all’esilio. Ma Eneo, che regnava ancora su Calidone nonostante l’età avanzata, gli doveva la vita. Avrebbe quindi accolto il nipote con immensa gioia, riconoscendogli i diritti che gli spettavano per eredità. Ma prima che giungessero a Calidone, i due eroi appresero una notizia sconvolgente: un nuovo colpo di Stato aveva rovesciato il potere. I figli di Agrio, altro figlio di Eneo, avevano imprigionato il vecchio re, torturandolo e spartendosi il trono e le ricchezze.
Diomede comprese allora che il destino lo metteva di fronte alla stessa prova che un tempo aveva affrontato suo padre: anche lui doveva lavare l’onta con il sangue. La vendetta spettava a lui, ma, una volta compiuta, non avrebbe potuto restare in patria: l’assassinio dei propri consanguinei lo avrebbe condannato all’esilio. Confidò il proprio turbamento ad Alcmeone, che lo ascoltò con comprensione. Riconobbe in Diomede un fratello nel destino: anche lui fuggiva, anche lui portava il peso della colpa.
Così, nella notte, entrarono a Calidone e compirono la loro vendetta. Uno per uno, uccisero i figli di Agrio, risparmiandone solo due, che riuscirono a fuggire. Poi si recarono alle carceri e liberarono Eneo. Diomede lo abbracciò, in lacrime, e gli disse di essere tornato per rimetterlo sul trono, come Tideo aveva fatto una volta. Gli raccontò la propria storia e aggiunse che, pur essendo venuto con l’intenzione di fermarsi per sempre, il destino esigeva che ripartisse subito.
Eneo, commosso, gli rispose che riconosceva in lui lo stesso valore e la stessa dedizione del padre. Ricordava bene quando Tideo aveva lasciato la patria, con la veste e i calzari ancora sporchi di sangue, dopo avergli salvato la vita. Quanto era stato ingiusto che fosse stato punito per quell’atto di lealtà. Ma mai avrebbe immaginato che, anni dopo, sarebbe stato un suo discendente a salvarlo ancora e a essere di nuovo costretto all’esilio.
Diomede tentò di placarlo, ma il vecchio re si oppose: non avrebbe lasciato partire da solo il proprio salvatore. Se Diomede non poteva restare, allora sarebbe stato lui ad accompagnarlo. Ormai anziano e stanco, desiderava solo pace, e avrebbe affrontato l’esilio accanto a suo nipote, certo che egli lo avrebbe sostenuto nel lento tramonto della sua vita.
Così, Diomede decise di tornare ad Argo con Eneo. Il regno di Calidone fu affidato a un genero fedele del vecchio re. E mentre i due si congedavano da Alcmeone, si consumava un ultimo, commosso abbraccio. Tutti e tre, pur su strade diverse, erano uniti da un unico destino: un esilio senza ritorno, lontano dalla patria, lontano dalla pace.
Il lieto fine
Alcmeone, tormentato giorno e notte dalle Erinni, proseguiva senza sosta il proprio cammino, spinto da un’unica, inestinguibile speranza: trovare, prima o poi, un luogo nel mondo dove le dee della vendetta lo avrebbero finalmente lasciato in pace.
Un giorno giunse sulle rive di un grande fiume, l’Acheloo, che segnava il confine tra l’Etolia e una terra aspra e boscosa, all’epoca ancora priva di nome. L’eroe seguì il corso del fiume fino alla foce, e lì si fermò. Osservò il luogo: il fiume, nel suo lento scorrere, riversava nel mare una grande quantità di detriti trascinati dalle montagne, formando una pianura alluvionale, acquitrinosa, che si protendeva verso alcuni isolotti.
All’improvviso, un’intuizione lo colpì: forse, quando aveva ucciso sua madre, quella terra ancora non esisteva. Forse era proprio quella la terra a cui aveva fatto allusione l’oracolo di Apollo — un luogo non ancora baciato dai raggi del sole al tempo del delitto. Se era davvero così, allora quella terra poteva offrirgli la pace.
Per verificarlo, Alcmeone si spinse fino alla piana alluvionale e, mentre il giorno cedeva il passo alla sera, si stese su un giaciglio di foglie. Quella notte, per la prima volta, le Erinni non si manifestarono, e Alcmeone poté dormire tranquillo. Il mattino seguente si svegliò e camminò a lungo lungo la foce. Ancora una volta, nessuna apparizione. Finalmente, poteva dire di aver trovato la terra della sua quiete.
Nel frattempo, sull’altra riva del fiume, le Erinni si erano fermate: il loro passaggio oltre quel limite era stato proibito per volere dell’oracolo di Apollo. Una di loro propose di attendere il matricida, certa che, prima o poi, sarebbe uscito dal lembo di terra che lo proteggeva. Ma un’altra, suggerì invece di abbandonare la caccia: non tutti gli assassini erano uguali. Alcmeone aveva agito per pietà filiale, non per odio. Era stato spinto da un destino più grande di lui. Non era giusto, dunque, insistere nella persecuzione. Le altre convennero, e si allontanarono per sempre.
Alcmeone, ormai libero dal tormento, rimase a lungo in quella terra silenziosa. Ma con il tempo, i bisogni primari — la fame, la sete — e il desiderio umano di compagnia, lo spinsero a uscire dal suo rifugio. Fu allora che ebbe la certezza: le Erinni lo avevano davvero abbandonato, e con loro era svanita anche la malattia dell’anima che l’aveva a lungo afflitto.
Decise quindi di unirsi a una popolazione vicina. Vi prese moglie, una donna del luogo, e da lei ebbe un figlio, che chiamò Acarnano. Con il tempo, scoprì che quella terra ampia e boscosa, oltre l’Etolia, era abitata da genti bellicose e in lotta continua. Una delle tribù più feroci era dominata da Icario, padre di Penelope, e dai suoi due figli, Alizio e Leucadio.
Quando Acarnano divenne adulto, Alcmeone pensò di compiere un gesto d’onore per il popolo che lo aveva accolto: decise di intraprendere una spedizione per unificare le etnie circostanti. Radunò i guerrieri più valorosi e partì con il figlio al suo fianco. La spedizione fu un successo: dopo una serie di battaglie vittoriose, seguirono celebrazioni solenni. Ai caduti furono tributati onori con banchetti funebri e corone.
Alcmeone tornò quindi dalla propria gente, che, riconoscente, lo acclamò re. Alla sua morte, sarebbe stato il figlio Acarnano a succedergli, e da lui avrebbe preso nome quella regione: Acarnania.
Ma prima che ciò accadesse, quando Alcmeone era ancora in vita, giunse da Argo un messo, portatore di notizie importanti. Il dominio della città era stato assunto da Agamennone, discendente della stirpe di Atreo. Approfittando del vuoto di potere lasciato dalla partenza di Alcmeone, aveva preso il controllo assoluto.
Il messo annunciò che Agamennone stava organizzando una grande spedizione: tutte le città greche si sarebbero unite per combattere un nemico lontano e potente — Troia. Il messaggero giungeva per invitare Alcmeone e il suo popolo a unirsi alla causa comune.
Ma Alcmeone rifiutò con fermezza. Era inaccettabile che colui che gli aveva usurpato il trono pretendesse ora di averlo come alleato. E concluse dicendo che il messo avrebbe fatto meglio a fuggire in fretta. L’ambasciatore se ne andò e tornò ad Argo per riferire tutto ad Agamennone.
Fu per questo che, tra tutti i Greci, soltanto gli Acarnani non parteciparono alla guerra di Troia.