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La Titanomachia e la Gigantomachia

Scopri il mito epico dell’origine del mondo secondo la mitologia greca: dalla nascita di Urano e Gea alla caduta dei Titani, la titanomachia, la guerra dei Giganti, la Gigantomachia, e l’ultima sfida con Tifone, fino al trionfo degli dei olimpici.

L’origine del mondo e la caduta di Urano

Principio di ogni cosa fu l’etere, una brezza limpida e pura che pervadeva l’universo. Veniva chiamata l’instancabile, poiché non si arrendeva mai: era un vento continuo che riempiva lo spazio vuoto, quando ancora nulla esisteva. Avrebbe continuato a soffiare anche dopo la creazione di ogni cosa, ma solo nella parte più alta del cielo, preclusa agli uomini e riservata agli dei, i soli che potevano respirarla.

Dal suo scorrere incessante si formarono due esseri immani, grandi quanto lo spazio percorso dal vento: Urano, il cielo, e Gea, la terra. Nulla animava in principio queste due entità enormi, nulla ne scalfiva l’imperturbabilità. Ogni cosa sembrava destinata a restare sempre uguale. E invece, un giorno, si verificò un mutamento.

La materia di cui Urano e Gea erano costituiti possedeva una qualità del tutto nuova: la capacità di generare esseri mai esistiti prima. Tale potere si manifestò all’improvviso, con un boato di potenza inaudita. A causarlo fu Urano, che per la prima volta fecondò Gea con le sue piogge.

Da questa unione tra l’elemento maschile e quello femminile ebbe inizio il processo di formazione del mondo. Fu un’enorme destabilizzazione, com’è naturale per ogni origine che scaturisce dal contatto tra due principi opposti. I primi frutti di Urano e Gea furono mostri che incarnavano sconvolgimenti e calamità naturali.

Dapprima nacquero i Centimani, esseri dotati di cento braccia e cinquanta teste, i cui movimenti provocavano sismi terrestri e marini. Poi fu la volta dei Ciclopi, tre fratelli di nome Arge, Sterope e Bronte, con un solo occhio rotondo in mezzo alla fronte. Quando si agitavano, generavano turbini e tempeste.

Erano esseri orrendi e spaventosi, e per questo Urano non li amava. Anzi, temeva che la loro forza straordinaria potesse sottrargli il potere. Decise quindi di allontanarli, relegandoli in un luogo dove non potessero nuocergli né essere visti: il Tartaro, situato nelle profondità più remote del grembo di Gea, tanto distante dalla superficie quanto la Terra lo è dal Cielo. Un luogo senza luce, oscuro e impenetrabile.

Gea, aggravata dal peso delle creature imprigionate e sconvolta dal dolore, iniziò a covare un profondo odio verso il marito. Ma Urano non se ne curava: ogni notte tornava a fecondarla. Così nacquero i sei Titani, divinità gigantesche che presiedevano lo scorrere del tempo, la permanenza e la distruzione di ogni cosa:

  • Iperione, signore dell’alternanza tra giorno e notte

  • Giapeto, dominatore della durata della vita e della morte

  • Ceo, custode dell’asse celeste attorno al quale ruotavano stelle e pianeti

  • Crio, guida delle costellazioni

  • Oceano, che aveva assunto l’aspetto di un fiume circondando l’intera terra e regolando il sorgere e il tramontare degli astri

  • Crono, il più giovane e il più forte, signore del tempo, al quale ogni cosa è sottomessa

Insieme ai Titani nacquero anche le Titanidi, le loro sorelle:

  • Rea, dea dell’instabilità

  • Temi, custode della giustizia eterna

  • Mnemosine, incarnazione della memoria

Il vigore e il carisma delle nuove generazioni avrebbero potuto riempire d’orgoglio qualsiasi genitore, e invece nemmeno questo bastò a placare il risentimento di Gea. Il pensiero che i Titani potessero subire la stessa sorte dei fratelli maggiori la tormentava. Così, un giorno, Gea li chiamò a sé, li mise in guardia contro la gelosia del padre e li invitò ad agire contro di lui.

Naturalmente Urano era un dio, e dunque immortale: non potevano ucciderlo, ma potevano privarlo della sua forza. Se uno di loro avesse avuto il coraggio di castrarlo, il potere del cielo sarebbe caduto.

A raccogliere con più convinzione l’invito fu Crono, consapevole che, una volta spodestato il padre, il regno sarebbe spettato a lui per diritto di successione.

Quando calò la sera, Urano, ardente d’amore, scese di nuovo sulla terra. Ma questa volta non riuscì a stringere Gea tra le braccia: venne afferrato dai quattro Titani – Iperione, Giapeto, Ceo e Crio – che con sforzo immenso lo immobilizzarono. Crono, al centro del cerchio, estrasse una falce e recise i genitali del padre.

L’unico a rifiutarsi di partecipare a quell’atto scellerato fu Oceano, che continuò a scorrere attorno alla terra mentre risuonavano le altissime grida del cielo.

Crono gettò i genitali di Urano nel mare, ma il sangue che ne colò impregnò ancora una volta Gea. Da quel contatto nacquero tre creature spaventose: Aletto, Tisifone e Megera, le Erinni, sorelle alate con serpenti al posto dei capelli, spiriti della vendetta e custodi della colpa.

Crono e la profezia della fine

Dopo la mutilazione di Urano, i Titani assunsero il dominio dell’universo. Obbedendo alla volontà di Gea, liberarono i loro fratelli imprigionati nel Tartaro e conferirono il potere supremo a Crono, al quale spettava di diritto. Questi consolidò il proprio dominio sposando la sorella Rea: così nacque un’alleanza invincibile tra il Tempo e la mutevolezza della realtà, forze a cui nessuno poteva sfuggire.

Tuttavia, nemmeno il grande potere fu sufficiente a garantire a Crono la pace. Come suo padre prima di lui, temeva la forza dei Ciclopi e temeva che un giorno potessero ribellarsi. Perciò decise di ricacciarli nel Tartaro. Gea, indignata, non reagì apertamente, poiché sapeva che presto qualcun altro avrebbe compiuto la vendetta. Aveva infatti profetizzato a Crono che anche lui, come Urano, sarebbe stato spodestato da un suo figlio.

Quando nacque Estia, la primogenita, Crono la inghiottì. Non per ucciderla, ma per impedirle ogni forma di esistenza autonoma. Lo stesso destino toccò poi a Demetra, Era, Ade e Poseidone. Così, Crono dimostrò verso i propri figli la stessa spietatezza che aveva condannato nel padre. Questo generò in Rea un odio profondo, simile a quello di Gea verso Urano.

Quando Rea fu nuovamente incinta, si rifugiò sul monte Liceo, in Lidia, dove diede alla luce Zeus, predestinato a rovesciare il potere di Crono. Non potendo crescerlo accanto a sé, Rea lo affidò a due ninfe, Adrastea e Ida, figlie del re locale. Queste lo nutrirono con il latte della capra Amaltea. Per impedire a Crono di udire i vagiti del piccolo, la dea fece accorrere i Cureti, spiriti guerrieri che, battendo le lance sugli scudi, mascheravano i suoni del neonato.

Quando Crono chiese notizie dell’ultimo figlio, Rea gli consegnò una pietra avvolta nelle fasce, che il dio divorò senza sospettare nulla. Credendolo annientato come gli altri, non temette più la minaccia profetizzata.

Zeus crebbe quindi nascosto e al sicuro. Durante la sua fanciullezza, i Titani raggiunsero l’apice del loro potere. Ognuno di loro celebrava nozze feconde: Crio ed Euribia generarono Astreo, Pallante e Perse; Oceano e Teti diedero vita alle Oceanine, ninfe delle acque; Pallante sposò Stige, da cui nacquero Vittoria, Forza, Potere e Invidia.

Febe e Ceo generarono Asteria e Latona. Asteria, unita a Perse, diede alla luce Ecate, dea dai molti poteri, capace di concedere doni a chi la invocava con sincerità. Latona, molto tempo dopo, si unì a Zeus e generò Apollo, dio del sole e della profezia, e Artemide, la cacciatrice.

Dall’unione tra Iperione e Teia nacquero Helios, Selene e Eos, divinità della luce, del giorno e della notte. Giapeto sposò Asia, figlia di Oceano, e i loro figli furono Atlante, Prometeo, Epimeteo e Menezio. Atlante, unito a Pleione, ebbe sette figlie: le Pleiadi. Quando il gigante Orione tentò di inseguirle, esse pregarono Zeus di salvarle. Il dio le trasformò in stelle, e da allora brillano nel cielo. Più tardi, una di loro, Elettra, chiese di essere allontanata per non assistere alla distruzione di Troia, e così da sette Pleiadi ne rimasero solo sei visibili.

Crono non ebbe figli solo da Rea. È noto il suo amore per Filira, figlia di Oceano. Assumendo forma equina, si unì a lei e generò Chirone, centauro saggio e giusto, che avrebbe insegnato agli uomini il valore dei giuramenti e il rispetto verso gli dèi.

Così si propagava il potere titanico, che sembrava incontrastabile. Eppure, esso poggiava ancora sull’ingiustizia e, come già avvenuto in passato, era destinato a crollare. Zeus, ormai adulto, aveva già iniziato a tessere la propria ribellione.

Titanomachia: l’ascesa degli dei e la fine dei Titani

Quando Zeus raggiunse l’età adulta, decise che era giunto il momento di liberare i suoi fratelli, ancora prigionieri nel ventre di Crono. Per compiere quest’impresa, si rivolse a Meti, la saggia figlia dell’Oceano, che gli offrì un potente emetico capace di indurre il vomito. Travestito, Zeus si recò alla corte del padre e, con astuzia, gli fece bere la pozione. L’effetto fu immediato: Crono rigettò per prima la pietra che aveva inghiottito al posto del figlio e poi, uno dopo l’altro, gli altri figli divini—Poseidone, Ade, Era, Demetra ed Estia.

Liberati dopo un lungo esilio forzato, i fratelli nutrivano un profondo rancore nei confronti del padre. Animati dal desiderio di vendetta, decisero di affrontarlo con la forza. Crono, però, non era solo: al suo fianco si schierarono i Titani, suoi fratelli e antichi signori del cosmo, pronti a difendere il potere con ogni mezzo. Solo Oceano si rifiutò di combattere, così come aveva fatto quando Urano fu detronizzato. A lui si unì la figlia Stige, che offrì fedeltà a Zeus, portando con sé tutta la sua prole.

Cominciò così la Titanomachia, la grande guerra tra i nuovi dei e i Titani. Il teatro degli scontri fu la Tessaglia, nella Grecia settentrionale, tra le vette dell’Otri—dove i Titani avevano eretto il loro baluardo—e l’Olimpo, quartier generale degli dei guidati da Zeus. Lo scontro fu epico: montagne e massi venivano lanciati come proiettili, la terra tremava, l’aria si riempiva di tuoni e urla. Per dieci anni, le due fazioni si fronteggiarono in un conflitto senza tregua né vincitori.

Fu Gea, la Madre Terra, a suggerire la svolta: soltanto con l’aiuto degli Ecatonchiri e dei Ciclopi, imprigionati nel Tartaro da Crono, gli dei avrebbero potuto prevalere. Zeus discese allora negli abissi infernali e affrontò il mostro Campe, guardiana del Tartaro, una creatura orrenda, metà donna e metà serpente, con serpenti al posto dei capelli e ali nere come la notte. Con il suo fulmine, Zeus la sconfisse, aprendo le porte del carcere e liberando i suoi possenti alleati.

Una volta riportati sull’Olimpo, gli Ecatonchiri e i Ciclopi vennero ristabiliti con ambrosia e nettare. In cambio, offrirono la loro forza e le loro abilità. I Ciclopi forgiarono le armi divine che sarebbero divenute simboli eterni del potere degli dei: a Zeus il fulmine, a Poseidone il tridente e ad Ade un elmo magico che lo rendeva invisibile.

Con queste nuove armi, la battaglia riprese con rinnovato vigore. Zeus lanciava fulmini che non mancavano mai il bersaglio; Ade colpiva senza essere visto; Poseidone seminava il caos con il suo tridente. Anche i Titani si difendevano con forza brutale, e uno di essi arrivò persino a minacciare Zeus stesso, finché non intervennero Apollo e Artemide in suo aiuto.

Alla fine, la resistenza titanica si sgretolò. Crono e i suoi vennero sconfitti tra fuoco e rovine. Zeus, per spegnere l’incendio della battaglia, fece cadere una pioggia purificatrice sulla terra. Come in ogni guerra, seguirono la vendetta e la punizione: i Titani, incatenati dagli Ecatonchiri, furono rinchiusi nel Tartaro. Solo Oceano fu risparmiato, in segno di rispetto per la sua neutralità, e poté continuare ad avvolgere il mondo con le sue acque.

Stige, per la sua lealtà, ricevette un onore unico: da quel momento, gli dèi avrebbero giurato sul suo nome nei momenti più solenni, e chi avesse infranto quel giuramento sarebbe stato esiliato dall’Olimpo per dieci anni.

Anche i figli dei Titani subirono la sorte dei padri. Prometeo fu incatenato, Atlante—che si era opposto apertamente agli dèi—fu condannato a reggere per sempre la volta celeste. Infine, con la vittoria conquistata, Zeus e i suoi fratelli celebrarono con danze e banchetti il nuovo ordine cosmico. Divisero l’universo con un sorteggio: Zeus ottenne il cielo, Poseidone il dominio dei mari, e Ade il regno delle ombre.

Così ebbe fine la guerra primordiale, e nacque il mondo governato dagli dei olimpici.

La guerra degli dei con i Giganti

Nel frattempo, Gea cominciò a struggersi per il destino dei Titani. Pur avendo inizialmente sostenuto la ribellione di Zeus contro Crono, avrebbe voluto che la vendetta si arrestasse una volta ottenuto il potere. Invece, la furia del nuovo sovrano dell’Olimpo sembrava inarrestabile, cieca al perdono e alla misura. Se solo si fosse stabilito un ordine fondato sulla riconciliazione, pensava la dea, il mondo avrebbe potuto fiorire sotto un nuovo equilibrio. Ma così non fu.

Colpita dal dolore e dal rimorso, Gea si unì al mare, Ponto, e diede nuovamente vita a creature enormi e terrificanti: i Giganti. La loro nascita avvenne nei campi infuocati della Tessaglia, in una regione detta Flegra. Appena emersi alla luce, questi esseri smisurati superavano in altezza le montagne e, muovendosi, sradicavano alberi e abbattevano foreste. Il loro aspetto era spaventoso: la parte superiore del corpo coperta da una peluria fitta, le membra inferiori ricoperte da squame coriacee.

Tra tutti spiccavano due fratelli: Porfirione, il più potente, che sarebbe stato detto il “re dei Giganti”, invulnerabile finché rimaneva nella sua terra, e Alioneo, di forza prodigiosa. Incitati da Gea, i Giganti iniziarono l’assalto al cielo, lanciando contro l’Olimpo massi giganteschi e alberi secolari. Gli dei, colti di sorpresa, temettero il peggio: un’antica profezia, infatti, aveva stabilito che i Giganti non potevano essere uccisi da mani divine.

Consapevoli del loro limite, gli dèi si riunirono in assemblea: solo un mortale, alleato al divino, avrebbe potuto ribaltare le sorti. Ma chi tra gli uomini sarebbe stato in grado di affrontare simili avversari?

Intanto Gea, che conosceva anch’essa la profezia, sapeva che i suoi figli erano quasi invincibili. Ma non le bastava. Voleva renderli del tutto immortali. Si mise allora in cammino alla ricerca di un’erba magica, unica nel suo genere, capace di garantire ai Giganti invulnerabilità anche contro gli uomini. Percorse la Tessaglia in lungo e in largo, anche di notte, alla luce della luna, scrutando ogni filo d’erba.

La notizia del suo viaggio giunse all’Olimpo, e accrebbe il timore degli dei. Se Gea fosse riuscita nel suo intento, il destino degli dèi sarebbe stato segnato. Fu allora che Zeus, dopo lunga riflessione, propose una soluzione ardita: Helios, Eos e Selene – il Sole, l’Aurora e la Luna – avrebbero dovuto sospendere per qualche tempo il loro corso. Così, nella tenebra assoluta, la dea non avrebbe più potuto proseguire la sua ricerca. Detto, fatto: senza luce a guidarla, Gea fu costretta a fermarsi, e Zeus colse l’erba prima di lei, facendola sparire dalla terra per sempre.

Con il pericolo scongiurato, rimaneva ora da scegliere l’uomo capace di affrontare i Giganti. Nessuno pareva all’altezza, finché Atena non fece un nome: Eracle. Eroe di forza ineguagliabile e astuzia rara, era stato capace persino di sostenere il cielo al posto di Atlante.

Durante una delle sue imprese, infatti, Eracle si era recato all’estremo Occidente, dove si trovava il giardino delle Esperidi, per rubare le mele d’oro che Gea aveva donato a Era in occasione delle nozze con Zeus. I frutti erano custoditi dalle ninfe del tramonto e da un serpente mostruoso. Per raggiungerli, Eracle aveva ottenuto da Helios una coppa d’oro con cui il dio attraversava il mare: con essa giunse in quel luogo incantato. Qui, invece di combattere il serpente, convinse Atlante a prendere per lui i frutti, sostenendo il cielo al suo posto per un breve tempo.

Dopo il racconto di Atena, gli dèi accolsero la proposta e inviarono la dea a chiamare Eracle, che accettò volentieri. Fu proprio lui a cambiare il corso della battaglia.

Per primo affrontò Alioneo: lo colpì ripetutamente, ma il gigante tornava sempre in piedi. Allora Atena gli rivelò che il mostro era invincibile finché si trovava sul suolo natìo. Così Eracle lo trascinò via da Flegra e lo finì una volta per tutte.

Tornato in battaglia, l’eroe affrontò Porfirione. Zeus intervenne suscitando in lui un desiderio insano verso Era. Quando il gigante tentò di aggredirla, il dio scagliò contro di lui un fulmine, stordendolo. Eracle colse l’attimo e lo colpì a morte con la sua freccia.

Così avvenne per tutti gli altri: ogni Gigante veniva indebolito da un dio e poi abbattuto dall’eroe. Al termine dello scontro, la piana tessala era cosparsa di corpi colossali, e gli dei, ancora una volta vittoriosi, poterono tornare a brindare nei loro palazzi celesti.

La caduta di Tifone e il trionfo degli dei

Dopo la sconfitta dei Giganti, gli dei consolidarono la loro supremazia, mentre i Titani rimasero confinati nelle profondità del Tartaro. Tuttavia, Gea non aveva ancora rinunciato alla speranza che i suoi figli potessero essere salvati, magari grazie all’intervento di un nuovo mediatore.

Dopo essersi unita al Cielo e al Mare, la dea si congiunse con il Tartaro, l’abisso infernale. Da quest’unione nacque una creatura immane, la più colossale e terrificante che Gea avesse mai generato: Tifone. Alto al punto da sfiorare le stelle, allungando le braccia toccava da un lato l’Oriente e dall’altro l’Occidente. Dai suoi arti si diramavano centinaia di serpenti che sibilavano senza sosta, il suo corpo era ricoperto di ali e, ad ogni suo passo, la terra tremava e l’aria echeggiava di boati. Dai suoi occhi e dalla sua bocca si sprigionavano fiamme altissime.

Incitato dalla madre, Tifone si scagliò contro gli dei, lanciando contro il cielo enormi massi infuocati. Atterriti, gli dèi fuggirono senza opporre resistenza, rifugiandosi in Egitto dove, per non farsi riconoscere, presero le sembianze di animali. Solo Zeus ebbe il coraggio di affrontare la creatura. Lo colpì con una tempesta di fulmini e lo ferì con una falce d’acciaio. Ma Tifone riuscì a rovesciare le sorti dello scontro: avvolse il dio tra le sue spire, gli strappò l’arma e, recisigli i tendini, lo lasciò imprigionato in una grotta, celando i tendini dentro la pelle di un orso.

Fu allora che Ermes, con l’aiuto di Pan, una divinità silvestre, scoprì il nascondiglio e, grazie ai suoi poteri, riuscì a riattaccare i tendini al corpo di Zeus. Il dio si rialzò, più forte di prima, e partì subito alla ricerca del suo avversario. Lo trovò in Tracia, dove Tifone, vedendolo arrivare, sradicò un’intera montagna e gliela scagliò contro. Zeus, però, intercettò il colpo con un fulmine, facendolo rimbalzare e ricadere addosso al mostro, che rimase gravemente ferito.

La battaglia continuò: Tifone scagliava montagne, Zeus rispondeva con i suoi fulmini, rigettando ogni attacco. Alla fine, Tifone, sfiancato e sanguinante, tentò la fuga. Sorvolò la Grecia e arrivò in Italia meridionale, ma quando fu sul punto di oltrepassare il mare per raggiungere la Sicilia, Zeus lo colpì con l’Etna, il monte più alto dell’isola, schiacciandolo sotto il suo peso.

Da allora, il vulcano cominciò a eruttare fuoco e fiamme: erano le vampe che Tifone, sepolto, continuava a emettere dagli occhi e dalla bocca, nel disperato tentativo di liberarsi. Gea, vedendo l’ultima delle sue creature soccombere, abbandonò ogni desiderio di ribellione. Gli dei, ormai incontrastati, divennero i sovrani indiscussi del mondo.

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