Riassunto del nono libro dell’Odissea: Odisseo e Polifemo
Nel nono libro dell’Odissea, Odisseo racconta ai Feaci le sue avventure dopo la caduta di Troia. L’eroe narra come, spinto dai venti, giunga dapprima a Ismaro, città dei Ciconi. Qui i suoi uomini, accecati dall’avidità, saccheggiano troppo a lungo e vengono contrattaccati: per ogni nave si contano sei caduti. Una tempesta scatenata da Zeus li trascina poi per nove giorni fino alla terra dei Lotofagi. Gli abitanti offrono ai compagni di Odisseo il loto, un frutto che fa dimenticare la patria e ogni desiderio di ritorno; solo trascinandoli a forza a bordo e rinchiudendoli riesce a salvarli.
Navigando nella notte, i Greci raggiungono la terra dei Ciclopi, giganti selvaggi e senza leggi. Dopo aver catturato alcune capre su un’isola vicina, si spostano sulla costa e scoprono una grotta piena di greggi e di cibo. I compagni suggeriscono di prendere il bottino e fuggire, ma Odisseo preferisce restare, scelta che si rivelerà disastrosa. Il proprietario della caverna è Polifemo, figlio di Poseidone, che dapprima mostra una falsa ospitalità e poi divora due uomini, imprigionando gli altri.
Consapevole che solo il Ciclope può spostare il masso che chiude l’ingresso, Odisseo rinuncia a ucciderlo subito e prepara un piano. Il giorno dopo, mentre Polifemo è al pascolo, scolpisce e indurisce al fuoco un grosso palo di legno. Al ritorno del gigante, lo fa ubriacare con del vino portato da Troia. Quando Polifemo chiede il suo nome, Odisseo risponde astutamente di chiamarsi “Nessuno”. Appena il Ciclope cade addormentato, i Greci gli accecano l’unico occhio. Alle grida accorrono altri Ciclopi, ma se ne vanno quando sentono che “Nessuno” lo sta uccidendo. All’alba, gli uomini fuggono aggrappandosi al ventre delle pecore che escono a pascolare. Salpati in mare con il gregge conquistato, Odisseo, preso dall’orgoglio, rivela la sua vera identità. Polifemo invoca allora il padre Poseidone perché si vendichi, condannando l’eroe a un lungo e doloroso ritorno.
Un racconto dentro il racconto
I libri IX-XII dell’Odissea sono raccontati in prima persona da Odisseo al re Alcìnoo e ai Feaci. Omero li usa per completare il quadro del protagonista, mostrando la sua astuzia ma anche i suoi errori. La scelta di portare con sé il vino prefigura l’inganno necessario a salvarsi; il dettaglio del nome “Nessuno”, inizialmente enigmatico, acquista senso quando i Ciclopi non soccorrono Polifemo.
Hybris e memoria
L’astuzia di Odisseo contrasta con l’imprudenza del suo gesto finale. La rivelazione del nome, con l’epiteto (“distruttore di città”), la genealogia (“figlio di Laerte”) e il riferimento a Itaca, rispecchia il rituale eroico della Grecia arcaica: il kleos, la gloria che si tramanda nel tempo. Ma qui l’orgoglio personale ha un prezzo: Poseidone cancella la sicurezza che Odisseo aveva ottenuto con l’inganno.
Polifemo: un mostro non privo di umanità
Nonostante la sua brutalità, Polifemo suscita una certa pietà. Accarezza con dolcezza le pecore che gli passano accanto, parla al suo ariete guida come a un amico e gli attribuisce sentimenti umani. Questo tratto tenero e inconsapevole accentua il contrasto con la furbizia dell’eroe greco, che nella cultura moderna talvolta appare non solo ingegnoso ma anche manipolatore. Dante, ad esempio, nel suo Inferno colloca Odisseo tra i consiglieri fraudolenti.
Il celebre episodio di Polifemo sintetizza la duplice natura di Odisseo: mente brillante e al tempo stesso vittima del proprio orgoglio. In esso si riflettono i valori e i dilemmi dell’eroe omerico — desiderio di fama, necessità di astuzia, rischio della hybris — che continuano a parlare ai lettori di oggi.
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