Scopri il mito della fondazione di Tebe e il destino di Edipo: dalle origini divine alla tragedia annunciata, tra dei, oracoli e profezie.
La fondazione di Tebe e la nascita di Edipo
Dopo la generazione degli dei, sorse quella degli eroi, i quali popolarono la terra e fondarono le prime città. Tra queste, una delle più importanti fu Tebe, edificata da Cadmo, discendente di Poseidone. Fu il dio Apollo, tramite l’oracolo di Delfi, a indicargli il cammino: Cadmo avrebbe dovuto seguire una giovenca e fondare la città nel punto in cui questa si fosse accasciata, stremata. Così fece: trovata l’animale, lo seguì dalla Focide fino in Beozia, dove l’animale si arrestò. In quel luogo sorse Tebe.
Molti miti narrano della fondazione della città, in particolare delle tensioni tra Cadmo e Ares, poiché Cadmo aveva ucciso un drago generato dal dio della guerra. Alla fine, però, si giunse alla riconciliazione, sancita dal matrimonio di Cadmo con Armonia, figlia di Ares. Tutti gli dèi discesero dall’Olimpo per celebrare l’unione, e tra i doni offerti, spiccavano un peplo e una collana forgiata da Efesto, che si sarebbero legati in modo indissolubile al destino di Tebe.
Cadmo fu seguito nel regno dal figlio Polidoro, che sposò Nitteide, figlia di Nitteo. La coppia generò Labdaco, che salì al trono ma morì giovane, lasciando un figlio in fasce: Laio. In attesa che il piccolo crescesse, il potere fu affidato al reggente Lico, fratello di Nitteo. Nitteo, oltre a Nitteide, aveva avuto anche Antiope, una donna di straordinaria bellezza. Zeus si invaghì di lei e dalla loro unione nacquero Anfione e Zeto.
Il disonore arrecato da Antiope portò il padre al suicidio, ma prima egli chiese a Lico di vendicarlo. Lico, divenuto reggente, catturò Antiope e la sottopose a crudeli vessazioni. Quando Anfione e Zeto raggiunsero l’età adulta, liberarono la madre e punirono Lico e sua moglie Dirce con un supplizio esemplare. Saliti al trono di Tebe, i fratelli si distinsero per la monumentale opera di fortificazione della città: Anfione, maestro nella cetra grazie all’insegnamento di Ermes, riusciva a muovere le pietre con la sola armonia della sua musica.
Dopo aver eliminato Lico, i due fratelli bandirono Laio, il legittimo erede, che si rifugiò nel Peloponneso, accolto dal re Pelope. In segno di gratitudine, Laio si offrì di insegnare a Crisippo, figlio del re, l’arte della guida del carro. Tuttavia, Laio si innamorò del giovane e lo rapì. Crisippo, travolto dalla vergogna, si tolse la vita. Pelope, distrutto dal dolore, lanciò una terribile maledizione contro Laio: se mai avesse avuto un figlio, questi lo avrebbe ucciso.
Dopo la morte di Anfione e Zeto, Laio tornò a Tebe, dove fu accolto come re e sposò Giocasta, figlia del nobile Meneceo. Ma l’ombra della maledizione di Pelope incombeva su di lui. Consultato l’oracolo di Delfi, apprese che avrebbe trovato la morte per mano di un proprio figlio. Terrorizzato, Laio decise di non consumare il matrimonio, ma una sera, forse per effetto del vino, dimenticò la profezia e si unì a Giocasta. Dalla loro unione nacque un bambino.
Appena saputo del concepimento, Laio affidò il bambino a un pastore, ordinandogli di abbandonarlo sul monte Citerone. Per impedirgli ogni possibilità di fuga, gli forò le caviglie con degli spilloni. Il pastore, obbediente, depose il piccolo sul monte. Ma il destino aveva altri piani.
Alcuni pastori di Sicione udirono i lamenti del bambino e, mosso a pietà, uno di loro lo raccolse e lo portò al re Polibo e a sua moglie Merope. La coppia, priva di figli, decise di adottarlo e di crescerlo come proprio. Poiché il bambino aveva i piedi gonfi per le ferite, gli diedero il nome di Edipo, che significa appunto “dai piedi gonfi“.
Edipo crebbe circondato dall’affetto dei genitori adottivi, ignaro della sua vera origine. Ma durante una lite con alcuni coetanei, fu insultato e accusato di non essere figlio legittimo. Sconvolto, si rivolse a Merope, che però, per timore, fu evasiva nelle risposte. Non pago, Edipo si recò a Delfi per interrogare l’oracolo. Ma la Pizia, invece di chiarire le sue origini, gli annunciò un terribile destino: avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre.
Inorridito, Edipo decise di allontanarsi da quella che credeva la sua patria per evitare che la profezia si avverasse, ignaro che il suo allontanamento l’avrebbe portato proprio verso il compimento del suo tragico destino.
Il destino di Edipo
Nel frattempo, a Tebe si verificavano gravi sconvolgimenti, ancora una volta legati al passato del re Laio. La sua relazione con Crisippo non era stata condannata solo da Pelope: anche Era, dea delle nozze e custode dell’unione coniugale, ne era rimasta profondamente indignata. L’amore di Laio, infatti, rappresentava una forma di unione che la dea non riconosceva né proteggeva. Così, quando il popolo di Tebe accolse Laio come sovrano senza tener conto di questo passato, Era decise di punire la città.
Mandò allora dalla lontana Libia la Sfinge, un essere mostruoso dal volto di donna, con corpo e zampe di leone, ali d’uccello e coda di serpente. La creatura si stabilì sul monte Ficio, davanti alla città, e da lì piombava sui viandanti, li ghermiva e li divorava. Anche i più valorosi tra gli eroi erano impotenti: tra le sue vittime figurava il nobile Ippio.
Un oracolo rivelò che l’unico modo per sconfiggere la Sfinge era risolvere il suo enigma. Ma chiunque tentava falliva, e veniva ucciso. In cerca di una soluzione, Laio decise di recarsi ancora una volta a Delfi. Tebe, intanto, era anche la patria del celebre indovino Tiresia, che lo sconsigliò dal partire: secondo lui, la sciagura non derivava da Apollo, ma da Era. Gli suggerì di recarsi al tempio della dea per offrirle sacrifici e ottenere il suo perdono. Ma Laio non volle rinnegare il proprio passato né pentirsene. Salì sul suo carro e prese la via di Delfi.
Proprio in quei giorni Edipo stava tornando da Delfi, ancora turbato dalla profezia ricevuta. Giunto a una strettoia, udì lo scalpitare di zoccoli. Un carro, condotto da un anziano e dal suo cocchiere, avanzava lungo la via. Edipo, da buon viandante, pretese il passo, ma il cocchiere reagì con un colpo di frusta. Il giovane, accecato dall’ira, si lanciò su di loro: li colpì con calci e pugni, li abbatté e li seppellì là dove erano caduti. Spogliò il corpo del vecchio della spada e della cintura, poi salì sul carro e proseguì. Senza saperlo, aveva appena compiuto il primo atto della profezia.
La notizia della morte di Laio giunse presto a Tebe, aggravando la già difficile situazione causata dalla Sfinge. Il potere fu affidato temporaneamente a Creonte, fratello di Giocasta. Egli aveva un figlio, Emone, bello e coraggioso. Emone si offrì di affrontare il mostro e risolvere l’enigma. Si presentò al cospetto della Sfinge, che gli pose la consueta domanda: “Qual è l’essere che cammina al mattino su quattro zampe, a mezzogiorno su due e alla sera su tre, e più gambe ha, meno forza possiede?”
Emone non seppe rispondere. Dopo un attimo di silenzio, la Sfinge gli balzò addosso e lo divorò. Creonte, distrutto dal dolore, proclamò allora che chiunque fosse riuscito a liberare Tebe dalla mostruosa creatura avrebbe ricevuto in premio il regno e la mano della vedova del re, Giocasta.
In quei giorni, Edipo giunse a Tebe. Quando seppe della minaccia della Sfinge, comprese che quella era la sua occasione. Si recò sul monte Ficio e si presentò davanti al mostro, che ripeté l’enigma. Edipo rispose:”È l’uomo. Da neonato cammina a quattro zampe, su mani e ginocchia. Da adulto su due. Da vecchio, con l’aiuto di un bastone, su tre.”
La Sfinge, sconfitta, fu presa da tale vergogna che si gettò da una rupe, schiantandosi al suolo. I Tebani esultarono, liberati dall’incubo. Creonte mantenne la promessa: offrì a Edipo il trono e la mano della regina. Così si celebrarono le nozze tra Edipo e Giocasta, e il giovane regnò su Tebe con saggezza, ignaro di aver ucciso il proprio padre e sposato la propria madre.
Per anni, Edipo e Giocasta governarono insieme e ridiedero prosperità alla città. Un giorno, però, durante un sacrificio sul monte Citerone, giunsero presso la strettoia dove, tempo prima, Edipo aveva ucciso i due viaggiatori. Raccontò alla moglie l’episodio, mostrandole la cintura che aveva conservato. Giocasta riconobbe l’oggetto appartenuto a Laio, suo primo marito, e il dubbio cominciò a tormentarla.
Poco dopo, arrivò un vecchio pastore da Sicione che chiese udienza al re. Questi rivelò a Edipo che non era figlio naturale di Polibo e Merope, ma che era stato trovato neonato e ferito sul monte Citerone, e poi adottato dai sovrani di Sicione. Il pastore, uno di quelli che l’aveva raccolto, gli mostrò la cesta con le fasce in cui era stato avvolto. La verità, ormai, non poteva più essere nascosta.
Giocasta, sconvolta, comprese l’orrore: Edipo era il figlio che lei stessa aveva generato e abbandonato. Fra grida e lacrime, rivelò tutto e poi, ritiratasi, si tolse la vita impiccandosi. Edipo, devastato, si accecò con uno degli spilloni della moglie. Vagò per il palazzo in preda al delirio, maledicendo la sorte. La tragedia si era compiuta, proprio come l’oracolo aveva predetto.
Il tempo, che tutto corrode, non cancellò il dolore di Edipo, ma ne lenì la furia. Dopo un lungo esilio interiore, il re decise di riprendere il potere per il bene della città. Sposò allora Euganea, figlia di Iperfagia, e da lei ebbe quattro figli: Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. Ma nuove tragedie erano già in agguato, e la stirpe dei Labdacidi avrebbe continuato a pagare il prezzo del peccato originario.