Scopri la Repubblica di Platone: datazione, contesto, personaggi, concetto di giustizia, educazione filosofica e riassunti dettagliati dei 10 libri. Un’analisi completa dell’opera che ha segnato la storia del pensiero occidentale.
INDICE
- Quando è stata scritta la Repubblica di Platone?
- Ambientazione del dialogo
- I personaggi
- Il concetto di giustizia nella Repubblica
- Educazione e conoscenza: il cammino verso l’idea del Bene
- Il primo libro della Repubblica
- Secondo libro
- Terzo libro
- Quarto libro
- Quinto libro
- Sesto libro
- Settimo libro
- Ottavo libro
- Nono libro
- Decimo libro
Quando è stata scritta la Repubblica di Platone?
Tra i dialoghi platonici, La Repubblica occupa un posto di assoluto rilievo: è tra i più influenti, ma anche tra i più complessi e controversi sotto il profilo esegetico. L’opera affronta in modo intrecciato questioni di etica, politica, psicologia, ontologia ed epistemologia, rendendo ardua una precisa collocazione temporale della sua composizione.
Per lungo tempo, si è ipotizzato che il dialogo sia stato scritto attorno al 375 a.C. Tuttavia, questa data va considerata solo indicativa, poiché nessuna opera dell’antichità veniva pubblicata in una data precisa, come avviene per i testi moderni. Un’opera ampia come La Repubblica fu verosimilmente redatta nell’arco di diversi anni, e in parte probabilmente fatta circolare già durante la stesura.
Un punto di riferimento cronologico significativo si trova nel libro V, dove Platone introduce l’idea della parità politico-militare tra uomini e donne, e la loro nudità durante gli esercizi ginnici. Qui Platone manifesta il timore di essere deriso dai comici, un riferimento che sembra alludere alle Ecclesiazuse di Aristofane (392 a.C.), una commedia che ironizza su temi comunistici allora discussi in certi ambienti intellettuali.
Se si ritiene autentica la testimonianza della Lettera VII, il primo viaggio di Platone in Sicilia (387 a.C.) fu ispirato proprio dal programma politico delineato in La Repubblica. Ciò rende plausibile ipotizzare che le idee centrali del dialogo fossero già presenti nel pensiero platonico intorno al 390 a.C., e che la redazione dell’opera sia iniziata dopo il rientro da quel viaggio, in un periodo coincidente con la fondazione dell’Accademia (circa 385 a.C.).
La data di completamento rimane incerta. Secondo alcune fonti, Platone avrebbe lavorato ancora all’inizio del dialogo poco prima della sua morte. Tuttavia, è certo che La Repubblica, o almeno sue parti significative, fosse già conosciuta al tempo della composizione del Timeo, che ne offre un riassunto. Riferimenti simili appaiono anche nel Crizia e nelle Leggi, oltre che nel Fedro, in cui si menziona una “mitologia intorno alla giustizia” che probabilmente allude proprio alla Repubblica.
Questi riferimenti si concentrano soprattutto sul nucleo politico dell’opera, suggerendo l’esistenza di più fasi compositive. Alcuni studiosi ipotizzano che i libri I-V siano stati scritti per primi, e i libri VI-VII aggiunti in un secondo momento.
In ogni caso, è ragionevole pensare che il dialogo abbia cominciato a circolare, almeno in ambienti accademici, tra il 375 e il 370 a.C., in una forma già molto simile a quella attuale. La composizione potrebbe aver occupato un decennio (385–375), o più largamente un ventennio (390–370 a.C.). Nella cronologia dei dialoghi platonici, La Repubblica appare successiva al Gorgia e anteriore al Fedro, al Parmenide e al Teeteto, situandosi quindi tra il primo e il secondo viaggio siciliano di Platone.
Ambientazione del dialogo
Il contesto narrativo del dialogo è ambientato ad Atene, nel giorno della prima celebrazione della festa delle Bendidie, una cerimonia notturna in onore della dea tracia Bendis, tenutasi nel Pireo. Tuttavia, la data esatta di questa celebrazione inaugurale è incerta. Gli studiosi propongono una datazione alta (intorno al 425 a.C.) o una più tarda (intorno al 411 a.C.), senza però giungere a un consenso definitivo, anche a causa di alcuni anacronismi presenti nel testo.
I personaggi
Sul piano letterario e filosofico, il dialogo si distingue anche per la varietà e la significatività dei personaggi, che incarnano differenti componenti della società ateniese dell’epoca: giovani aristocratici, artigiani benestanti, intellettuali e politici.
Tra i protagonisti spicca naturalmente Socrate, il principale interlocutore, affiancato dal sofista Trasimaco di Calcedonia, figura emblematica dell’intelligenza critica e antidemocratica, con possibili simpatie tiranniche. Trasimaco rappresenta una cultura rivale rispetto a quella platonica, molto presente nella Atene della fine del V secolo a.C.
Dal lato democratico, compaiono figure come Lisia, celebre oratore che però non interviene direttamente nel dialogo, e suo fratello Polemarcho, uno degli interlocutori principali. Entrambi sono figli del meteco Cefalo, ospite di Socrate e proprietario della casa dove si svolge il dialogo. Cefalo era originario di Siracusa e produttore di scudi, invitato ad Atene da Pericle.
È interessante notare che sia Polemarco, vittima della repressione dei Trenta Tiranni nel 404 a.C., sia Socrate, condannato dalla democrazia restaurata nel 399 a.C., furono perseguitati da regimi politici considerati ingiusti. Il dialogo si propone anche come risposta a tali ingiustizie, offrendo un modello alternativo di città giusta.
I destinatari ideali del progetto educativo-politico delineato da Platone sono rappresentati dalla giovane aristocrazia ateniese, in particolare dai suoi due fratelli, Glaucone e Adimanto, che a partire dal secondo libro diventano i principali interlocutori di Socrate. Il loro ruolo critico e stimolante è fondamentale nello sviluppo dell’argomentazione.
Nel loro insieme, i personaggi del dialogo non solo animano la discussione, ma incarnano le culture e le visioni politiche che Platone intende criticare o riformare. Alcuni, come Trasimaco, esprimono valori opposti a quelli della filosofia platonica; altri, come Polemarco, Glaucone e Adimanto, rappresentano interlocutori da convincere, liberandoli dalle illusioni e orientandoli verso la verità della giustizia e del bene.
Il concetto di giustizia nella Repubblica
Il tema della giustizia costituisce il fulcro concettuale dell’intero dialogo e, al contempo, il punto di partenza della sua complessa articolazione teorica. La domanda su che cosa sia la giustizia, e se valga la pena essere giusti, viene posta fin dalle prime battute del dialogo, nel confronto serrato tra Socrate e interlocutori come Cefalo, Polemarco e Trasimaco, ognuno dei quali rappresenta un modello culturale e sociale diverso e, conseguentemente, una concezione differente della giustizia stessa. La discussione passa così da una definizione tradizionale e paternalistica a una concezione strumentale e cinica, fino all’elaborazione socratica che disarticola tali visioni per proporre una fondazione più radicale e strutturale del concetto.
La giustizia, secondo Platone, non è semplicemente un comportamento esteriore conforme alla legge o all’utile, ma una qualità interna dell’anima e della città, una forma di ordine e armonia tra le parti che le compongono. Da questo punto di vista, il discorso si sviluppa parallelamente su due piani: quello dell’individuo e quello della polis. L’anima, come la città, è articolata in tre parti — razionale, irascibile e concupiscibile — e la giustizia consiste nel fatto che ciascuna di esse compia la propria funzione senza usurpare quella delle altre. Analogamente, nella città giusta, ciascuna classe — governanti, guardiani e produttori — deve esercitare il ruolo che le è proprio, secondo natura e secondo competenza.
Questa corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, tra l’anima e la città, non implica una semplice analogia strutturale, ma piuttosto una visione ontologica unitaria, secondo cui il giusto è ciò che realizza un ordine intrinseco e razionalmente fondato. È proprio questo ordine a distinguere il bene apparente dal bene reale, e il piacere illusorio dal vero benessere, che è proprio dell’anima giusta e ben governata.
Il discorso platonico sulla giustizia, tuttavia, non si conclude in una mera definizione astratta: esso si incarna nella figura del filosofo-re, colui che, avendo conosciuto l’idea del Bene, è capace di governare secondo giustizia non per imposizione esterna ma per visione interiore della verità. La giustizia diviene così, nel contesto della Repubblica, l’esito di un percorso educativo, teorico e pratico, che guida l’anima e la città verso la realizzazione del loro telos più proprio. In tal senso, la giustizia non è solo oggetto di indagine, ma anche fine educativo, fondamento politico e condizione esistenziale dell’umano vivere bene.
Educazione e conoscenza: il cammino verso l’idea del Bene
Uno degli assi portanti della Repubblica è il legame tra educazione, conoscenza e giustizia. Platone elabora in quest’opera una vera e propria teoria dell’educazione filosofica come graduale ascesa verso la verità, strutturata in stadi cognitivi e formativi che corrispondono a livelli differenti della realtà. L’educazione non è mai ridotta a trasmissione di contenuti o a semplice addestramento tecnico, ma è concepita come trasformazione radicale dell’anima, come metanoia, passaggio da un’ignoranza inconsapevole a una consapevolezza piena e illuminante.
Questo cammino è descritto attraverso due celebri allegorie: quella della linea divisa e quella della caverna, entrambe contenute nel libro VII. Nella prima, Platone distingue tra opinione (doxa) e scienza (epistéme), e all’interno di queste due grandi sfere, ulteriori gradi: immaginazione, credenza, pensiero discorsivo e intelletto puro. L’allegoria della caverna, che ha avuto una fortuna iconica nella storia del pensiero occidentale, rappresenta invece in forma drammatica e simbolica il processo educativo: l’uomo prigioniero delle apparenze, liberato, attraversa un doloroso processo di adattamento alla luce, fino a contemplare l’idea del Bene, causa dell’essere e del conoscere.
L’idea del Bene rappresenta il vertice del sistema platonico, punto culminante dell’ontologia e al contempo fondamento dell’etica e della politica. Essa non può essere compresa attraverso discorsi dimostrativi, ma solo intuita per via dialettica, in un itinerario interiore che esige rigore intellettuale e disposizione morale. Proprio per questo, la formazione dei futuri governanti — i filosofi-re — non si limita alle competenze pratiche, ma abbraccia l’intera esistenza: dalla ginnastica alla musica, dalla matematica alla dialettica.
La funzione dell’educazione nella Repubblica è dunque eminentemente politica: solo chi ha conosciuto il Bene è in grado di realizzarlo nella città. Ma è anche ontologica e psicologica: senza educazione, l’anima resta prigioniera delle passioni e delle illusioni. La paideia platonica è così una pedagogia dell’anima, volta a risvegliare in essa la memoria della verità e ad orientarla verso ciò che è stabile, intelligibile, eterno.
Tuttavia, questo percorso non è accessibile a tutti, ma solo a coloro che per natura e inclinazione sono predisposti a seguirlo. Da qui la necessità di una selezione educativa che distingua tra i diversi livelli di attitudine e di vocazione, così da assegnare a ciascuno la funzione più conforme al proprio essere. L’educazione, nella Repubblica, non è quindi solo formazione individuale, ma anche criterio di giustizia sociale: solo una città in cui ciascuno riceve l’educazione adeguata al proprio ruolo può dirsi giusta e ben ordinata.
Il primo libro della Repubblica
Il primo libro della Repubblica di Platone è stato oggetto di un’antica e complessa controversia. Molti studiosi hanno ritenuto che esso costituisse un dialogo autonomo, forse originariamente composto con il titolo Trasimaco. Questa ipotesi si è poi intrecciata con quella basata su considerazioni stilometriche e tematiche, che suggerivano una data di composizione molto precoce, intorno al 390 a.C.
Tuttavia, è importante distinguere le due questioni: l’autonomia del primo libro e la sua datazione. Nulla impedisce di ritenere che Platone abbia concepito e scritto il primo libro come parte iniziale di un progetto unitario, che solo successivamente si sarebbe sviluppato nella forma compiuta della Repubblica. Una datazione alta, quindi, non implica necessariamente l’autonomia del libro, né risolve i problemi interpretativi che esso presenta.
Gli argomenti a favore dell’autonomia del primo libro sono evidenti già a una prima lettura. L’ambientazione – le festività tracie delle Bendidie nel Pireo – riflette perfettamente la ricca e complessa polifonia sociale e culturale dell’Atene del V secolo. Il metodo elenctico (confutatorio), il tono apologetico, il continuo riferimento al paradigma delle technai (arti o mestieri), tutti questi elementi lo collocano nell’atmosfera dei dialoghi socratici giovanili.
Anche lo stile narrativo contribuisce a questa impressione: la narrazione di Socrate è priva di un destinatario esplicito, come accade soltanto in altri dialoghi considerati giovanili, come il Liside e il Carmide. Tuttavia, a queste ragioni si contrappongono elementi altrettanto forti a favore dell’inclusione del primo libro nel corpo della Repubblica.
Infatti, il primo libro anticipa chiaramente temi che verranno approfonditi nei libri successivi: la teoria dell’anima tripartita nel libro IV, il governo dei filosofi e la kallipolis nel libro V. Senza questi sviluppi, l’ultima confutazione di Socrate contro Trasimaco – che contesta la potenza dell’ingiustizia – risulterebbe priva di fondamento teorico.
Per questo motivo, anche i sostenitori più moderati dell’autonomia hanno riconosciuto che il primo libro fu certamente rifuso da Platone per fungere da proemio alla Repubblica. Non è dunque in discussione che Platone abbia voluto conferire al primo libro una funzione introduttiva fin dall’inizio, o in una fase non molto successiva alla sua prima stesura.
Sappiamo inoltre, da testimonianze credibili, che Platone non cessò mai di rielaborare le parti iniziali del dialogo. Resta però il problema ermeneutico: perché Platone decise di aprire un’opera così ambiziosa con un dialogo marcatamente socratico?
Anche qualora il primo libro fosse stato scritto in origine come testo a sé stante, la decisione di utilizzarlo come apertura del grande dialogo non può essere considerata casuale. Come ha suggerito Blackstock, si può parlare di un “portico socratico” che introduce alla Repubblica. Questo ritorno allo stile socratico – problematico e provocatorio ma concettualmente insufficiente – sarebbe allora un modo per Platone di congedarsi da quella forma filosofica giovanile, per mostrarne la forza problematizzante ma anche i limiti teorici.
In quest’ottica, non è essenziale distinguere tra Socrate storico e Socrate personaggio: ciò che conta è la prima maniera filosofica platonica, qui rimessa in scena criticamente per l’ultima volta. In questo quadro, la funzione del primo libro emerge con chiarezza: la dialettica socratica è efficace per confutare concezioni diffuse e tradizionali della giustizia – come quelle sostenute da Cefalo e Polemarco – ma si mostra inadeguata di fronte a posizioni più complesse come quella di Trasimaco, che riflettono il pensiero politico più avanzato del tempo.
Tali posizioni richiedono un livello di confutazione più ampio, non solo politico e psicologico, ma anche epistemologico. È questo il senso dell’autocritica di Socrate al termine del primo libro, e del passaggio al livello politico nel secondo libro, che prelude allo sviluppo teorico complessivo dell’intera Repubblica.
- I personaggi del primo libro
Il primo libro della Repubblica mette in scena una discussione corale sui grandi temi dell’etica e della politica – la giustizia, il potere, la natura dell’uomo – ambientata durante una festività religiosa dalle tinte barbariche: le Bendidie, dedicate alla dea tracia Bendis, che si tengono nel Pireo, il porto di Atene.
Il Pireo, liminare rispetto alla polis, rappresenta un punto d’incontro fra mondi diversi: giovani aristocratici ateniesi e intellettuali come Socrate e Trasimaco, meteci come la famiglia di Cefalo, e altri personaggi che offrono un’immagine vivida e stratificata della società ateniese. Si tratta di un “melting pot” culturale e sociale, che costituisce anche un punto di osservazione esterno ma prossimo ai problemi della città.
Lo stile della narrazione, nonostante occasionali impennate emotive (soprattutto durante l’intervento di Trasimaco), si mantiene leggero, a tratti persino comico. Tuttavia, presso il pubblico ateniese – consapevole del destino tragico di alcuni dei protagonisti, come Socrate e Polemarco, entrambi caduti vittime di forme diverse d’ingiustizia politica – questa leggerezza assume un effetto drammatico.
L’intreccio tra realtà storica e costruzione letteraria è intenso. La società messa in scena nel primo libro riflette, in forma simbolica e concentrata, quella dell’Atene contemporanea a Platone, con le sue tensioni, classi sociali e conflitti ideologici.
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Trasimaco rappresenta il fronte ideologico vicino alla tirannide. È sostenuto nel dialogo da Citofrone, personaggio legato storicamente al tentativo oligarchico del colpo di Stato del 411 a.C.
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Cefalo e Polemarco incarnano la tradizione democratica e la morale borghese legata alla politica di Pericle.
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Glaucone e Adimanto, fratelli di Platone, rappresentano la giovane aristocrazia ateniese, colta, ambiziosa e desiderosa di riformare la polis.
Glaucone emerge sin da subito come una figura dominante del dialogo: è lui a trattenere Socrate nel Pireo, a offrirsi di pagare il compenso a Trasimaco per continuare la discussione, ed è ancora lui a rilanciare la sfida filosofica nel secondo libro. Anche Adimanto sarà figura centrale nella prosecuzione del dialogo.
Tra i silenziosi spettatori del primo libro vi è anche Lisia, celebre oratore, e Nicerato, figlio dello stratega Nicia, entrambi membri del medesimo ambiente culturale e politico. Questi personaggi non parlano, ma la loro presenza conferisce al dialogo una forte densità storico-politica.
La rappresentazione dell’alleanza tra Socrate e Polemarco, pur di provenienza sociale e ideologica diversa, assume qui un significato simbolico. Polemarco, artigiano ricco e meteco, democratico per tradizione familiare e sociale, sarà una delle prime vittime dei Trenta Tiranni, che lo giustizieranno anche per il suo patrimonio. Socrate, invece, sarà condannato a morte dalla democrazia restaurata.
Questo tragico incrocio tra due destini politici opposti – Polemarco vittima dell’oligarchia, Socrate della democrazia – mette in scena un profondo paradosso e rende ancora più urgente la ricerca di una giustizia superiore, che superi i limiti dei due regimi e guidi la costruzione di una città veramente giusta. È proprio questo il compito che la Repubblica si assegna a partire dal secondo libro.
- Socrate nel primo libro della Repubblica
Nel primo libro della Repubblica, Platone propone una vera e propria rivisitazione critica del personaggio Socrate. Il filosofo viene presentato con tutti i tratti caratteristici dei dialoghi socratici giovanili: l’atteggiamento ironico, la dichiarazione di ignoranza, la passione per la confutazione (elenchos), la curiosità verso ciò che accade in città. Ma Platone, allo stesso tempo, mette in discussione i limiti di questo approccio, talora in modo quasi spietato.
Una delle allusioni più forti e ironiche è il parallelo con l’Apologia. Quando Trasimaco impone una “multa” a Socrate, chiedendogli una definizione valida di giustizia, il filosofo dichiara di non avere denaro – proprio come aveva fatto nel suo processo, finendo però per accettare l’offerta dei suoi amici, tra cui lo stesso Platone. Qui, invece, è Glaucone a offrirsi di pagare per lui. L’episodio richiama alla memoria del lettore il processo e la condanna a morte, caricando il dialogo di tensione tragica.
Inoltre, Platone fa discendere Socrate nel Pireo – un gesto denso di significato simbolico. Il Pireo, porto oscuro e luogo di mescolanza culturale, è raffigurato come un mondo infero, barbarico, lontano dalla purezza razionale dell’Acropoli. In questo contesto, Socrate è ancora un “uomo curioso”, amante degli spettacoli e della compagnia dei giovani, ma non ancora un vero filosofo.
"Socrate non viene certo spesso a visitarci scendendo al Pireo", dice Cefalo – un’affermazione che suona come un invito iniziatico. Per diventare sapiente, Socrate deve scendere, confrontarsi con le contraddizioni della città reale e iniziare un percorso trasformativo.
Il metodo socratico si basa sull’elenchos, la confutazione: un procedimento che smonta le convinzioni dell’interlocutore portandole alle estreme conseguenze. Ma questo metodo, sebbene efficace con personaggi come Cefalo o Polemarco, si rivela insufficiente contro Trasimaco. L’argomentazione socratica smaschera le contraddizioni logiche, ma non offre un’alternativa costruttiva. È capace di decostruire, ma non ancora di fondare.
Emerge così una debolezza strutturale del personaggio socratico, che Platone mette in scena consapevolmente:
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Socrate continua ad affidarsi al modello delle technai (arti o mestieri) per spiegare la giustizia, ma questo paradigma si dimostra incapace di affrontare il problema politico del potere.
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Socrate evita il nodo teorico del rapporto tra legge (nomos) e giustizia, che invece Trasimaco sfrutta con abilità.
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L’ironia socratica – la dichiarazione di “non sapere” – non è una maschera, ma una strategia filosofica per opporsi alla presunta sapienza dei poeti e dei politici. Tuttavia, non può bastare.
Platone sembra suggerire che questa forma di filosofia, tutta socratica, deve essere superata. Socrate, nel corso della Repubblica, si trasformerà: da figura ironica e problematizzante, diventerà portatore di una nuova teoria, capace di ricostruire positivamente la giustizia e la città giusta.
È il romanzo di formazione del filosofo, un Bildungsroman in forma dialogica: per educare la città, Socrate deve prima discendere nelle sue profondità, scontrarsi con i suoi valori corrotti, le sue ideologie, le sue paure. Solo al termine di questo percorso sarà possibile risalire verso la luce – come accadrà nel mito della caverna – e proporre una riforma autentica della vita individuale e collettiva.
- Lo sviluppo delle argomentazioni nel primo libro
Il dibattito sulla giustizia prende avvio da una preoccupazione esistenziale espressa da Cefalo: come prepararsi alla morte e al giudizio nell’Ade? La sua risposta è semplice e tradizionale: essere onesti, restituire ciò che si è ricevuto, rispettare gli dèi. Ma questa etica rituale e conservatrice non regge all’esame socratico: non basta una condotta corretta per definire la giustizia in modo universale.
Polemarco, che riprende l’eredità morale del padre, propone una definizione più pragmatica: giustizia è fare del bene agli amici e del male ai nemici. È la morale agonale, tipica della polis, fondata su fedeltà e ostilità. Socrate smonta anche questa tesi: la giustizia non può essere strumento di inimicizia o vendetta, altrimenti produce conflitto e disordine anziché armonia.
Il confronto cambia completamente tono quando entra in scena Trasimaco, che eleva la questione al livello politico. Egli sostiene due tesi radicali:
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Giusto è ciò che è utile al più forte: la legge, in qualsiasi regime (tirannico, aristocratico, democratico), è creata da chi detiene il potere, e serve sempre a consolidare tale potere. La giustizia, dunque, non è un valore morale, ma un’espressione del potere vigente.
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La giustizia è un bene per gli altri, l’ingiustizia è vantaggiosa per sé: rispettare le leggi non conviene, mentre chi è perfettamente ingiusto – come il tiranno – è potente, libero, felice.
La prima tesi di Trasimaco ha una forza teorica impressionante. Egli smaschera l’equazione tradizionale tra giustizia e legge (dikaiosynē e nomos) e ne rivela la natura ideologica: non c’è giustizia oggettiva, ma solo la volontà di potere mascherata da legalità. La seconda tesi, invece, porta questa impostazione alle estreme conseguenze, introducendo un giudizio di valore: l’ingiusto è meglio del giusto, perché più potente, autonomo e felice.
Platone sembra accogliere la forza teorica della prima tesi, ma critica duramente la seconda. La confutazione socratica, infatti, è parzialmente efficace: Socrate riesce a mostrare alcune contraddizioni, ma non a smontare completamente l’impianto teorico di Trasimaco. Alla fine del libro, Socrate stesso ammette la propria insoddisfazione e la necessità di continuare la ricerca.
Qui si apre lo snodo centrale della Repubblica: la giustizia non può essere definita solo a livello individuale, né può essere ridotta a un’opinione condivisa o a un calcolo di convenienza. Va riformulata a partire dal contesto politico, all’interno della costruzione di una polis giusta. È questo il senso del passaggio al secondo libro, dove Glaucone e Adimanto rilanceranno la questione chiedendo una difesa completa e convincente della giustizia per se stessa.
La risposta platonica arriverà su due livelli:
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Nel libro IV, con la teoria dell’anima tripartita e la giustizia come armonia tra le sue parti.
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Nel libro IX, con la dimostrazione della felicità del giusto e dell’infelicità dell’ingiusto, culminante nel mito escatologico del libro X.
Il primo libro, quindi, non è un semplice preambolo: è il nucleo polemico e drammatico da cui tutto il progetto della Repubblica prende le mosse. Trasimaco, con la sua lucidità brutale, costringe Platone ad abbandonare definitivamente il paradigma socratico e ad affrontare la filosofia politica nella sua forma più radicale.
Secondo libro
Nel secondo libro della Repubblica, Platone, attraverso il dialogo tra Socrate, Glaucone e Adimanto, affronta il tema fondamentale della giustizia. Il discorso si sviluppa come una vera e propria ricerca: cos’è la giustizia? Perché dovremmo essere giusti?
Dubbi e Provocazioni: la sfida di Glaucone
Glaucone, non del tutto convinto dalla precedente confutazione di Trasimaco (che vedeva nella giustizia solo l’interesse del più forte), riprende il discorso con nuove provocazioni. Introduce una distinzione tra tre tipi di beni:
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Quelli desiderabili in sé (come la gioia);
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Quelli desiderabili sia per sé sia per i benefici che portano (come la salute);
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Quelli desiderabili solo per i vantaggi che apportano (come le cure mediche).
Socrate colloca la giustizia nella seconda categoria: essa sarebbe desiderabile sia per sé sia per i suoi effetti. Tuttavia, Glaucone obietta che, nella percezione comune, la giustizia rientrerebbe nella terza categoria: non amata per se stessa, ma scelta solo per evitare mali peggiori.
Per rafforzare il suo argomento, Glaucone racconta il celebre mito dell’anello di Gige: chi possedesse il potere di diventare invisibile (e quindi agire senza temere conseguenze) sceglierebbe inevitabilmente l’ingiustizia. Questo racconto porta a una tesi inquietante: gli uomini sono giusti solo per convenienza, non per intima convinzione.
La proposta di Adimanto: cercare la giustizia in sé
Adimanto, intervenendo, invita a non fermarsi alla sola apparenza o utilità della giustizia. Bisogna comprendere la giustizia nella sua essenza, indipendentemente dalle sue ricompense esteriori. Di fronte a questa difficoltà, Socrate propone un metodo nuovo: poiché l’individuo è piccolo e complesso da analizzare, si cercherà di comprendere la giustizia nello Stato, costruendo una città ideale, specchio ingrandito dell’anima individuale.
La fondazione dello Stato Ideale
Socrate inizia allora a costruire uno Stato “dal principio”, ponendo una sola regola: ogni uomo deve svolgere un solo mestiere, quello per cui è più portato. In questo modo si creano gradualmente dei nuclei di popolazione, ognuno necessario alla vita comune:
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Primo nucleo: agricoltori, muratori, sarti, calzolai – coloro che provvedono ai bisogni primari.
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Secondo nucleo: carpentieri, fabbri, artigiani, pastori – per strumenti, edifici, e produzione.
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Terzo nucleo: commercianti e marinai – per gli scambi e le connessioni con l’esterno.
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Quarto nucleo: negozianti e mercenari – per la distribuzione dei beni e la difesa.
Questo modello darebbe vita a uno Stato sano, semplice e autosufficiente. Tuttavia, su richiesta di Glaucone, Socrate aggiunge un ulteriore livello: il lusso.
Con il lusso emergono nuovi bisogni e nuove classi sociali:
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Quinto nucleo: poeti, musici, artigiani di beni superflui.
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Sesto nucleo: servi, per i lavori più pesanti.
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Settimo nucleo: medici e ulteriori pastori, per mantenere la salute collettiva.
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Ottavo nucleo: guardiani e filosofi, responsabili della difesa e del governo dello Stato.
L’educazione dei Guardiani
I guardiani, incaricati di proteggere e guidare la città, dovranno essere educati con particolare attenzione. Socrate sottolinea due elementi essenziali della loro formazione: ginnastica per il corpo e musica per l’anima.
Inoltre, occorrerà vigilare attentamente sulla cultura e sulla narrativa tramandata. La poesia tradizionale, che spesso dipinge gli dei come ingannevoli, mutabili o addirittura malvagi, non può essere accettata. Da qui nascono le prime leggi fondamentali per l’educazione:
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La divinità è buona: Dio è causa solo del bene, mai del male.
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La divinità è perfetta: Dio è immutabile, non soggetto a trasformazioni.
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Gli dei non ingannano: essi sono sinceri e non commettono falsità.
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I poeti non devono rappresentare gli dei in modo distorto.
Queste norme mirano a creare una cultura che sia riflesso della verità e della bontà, perché i cittadini crescano in armonia con questi valori.
Il secondo libro della Repubblica getta le fondamenta del pensiero politico di Platone: la giustizia non è solo un accordo utilitaristico, ma un ordine armonico interno all’anima e alla società. Attraverso l’educazione, il lavoro specializzato e la corretta rappresentazione del divino, Platone prefigura una città giusta in cui ogni individuo trova il suo posto naturale.
Un viaggio filosofico che, a distanza di secoli, continua ad affascinare e interrogare il nostro modo di pensare alla politica, alla cultura e all’educazione.
Terzo libro
Nel terzo libro della Repubblica, Platone – attraverso la voce di Socrate – prosegue la sua dura critica contro l’arte. Non ogni creazione artistica è ben accolta: vengono condannate le opere che rappresentano eroi intemperanti, avidi, disonesti o eccessivamente inclini al riso.
Secondo Platone, l’arte ha il potere di modellare l’anima, e per questo va attentamente selezionata.
La letteratura viene suddivisa in tre forme:
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Imitativa: narrazione in prima persona, che favorisce l’immedesimazione.
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Narrativa: narrazione in terza persona, con uso di discorso indiretto.
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Mista: combinazione di entrambi gli stili.
Le forme imitativa e mista sono bandite, a meno che non raccontino azioni virtuose, poiché rischiano di deviare l’anima dalla retta conoscenza.
Musica: L’amore per il bello
Dopo l’arte, Socrate si sofferma sulla musica, riconosciuta come strumento educativo potentissimo. La musica è composta da tre elementi fondamentali: parole, armonie e ritmi.
1. Parole
Devono esprimere solo azioni virtuose, capaci di elevare l’anima verso il bene.
2. Armonie
Platone distingue fra armonie positive e negative:
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Bandite:
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Mixolidia e Sintonolidia perché troppo lamentose.
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Ionica e Lidia perché troppo molli e conviviali.
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Accettate:
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Dorica: infonde fermezza e coraggio.
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Frigia: ispira comportamenti pacifici e armoniosi.
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3. Ritmi
Sono ammessi solo ritmi regolari ed eleganti, mentre vengono esclusi quelli irregolari e scomposti.
La musica, dunque, non deve solo dilettare, ma deve guidare verso l’amore per il bello e il bene.
Ginnastica: forza al servizio dello spirito
Alla musica si affianca la ginnastica, altro pilastro dell’educazione dei guardiani. Essa mira alla cura del corpo per rafforzare l’anima.
Gli esercizi sono semplici, ripetuti e modellati sull’esempio spartano, mirati all’efficienza bellica più che all’estetica.
Anche l’alimentazione è regolata:
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Favorita: carne arrostita.
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Limitati: pesce e carni lessate.
Platone sottolinea che la cura del corpo ha senso solo nella giovinezza: non si devono investire energie per curare individui che non sono più utili alla società.
Anima pura per governare
Musica e ginnastica influenzano direttamente l’anima. Solo chi possiede un’anima ferma e pura può essere un guardiano.
Soprattutto i giudici devono essere puri d’animo ma anche esperti della malvagità, così come un buon medico deve conoscere le malattie senza esserne contagiato.
Platone giustifica anche la possibilità che i governanti mentano, se necessario, per il bene comune, esattamente come un medico può agire per il bene del paziente anche senza il suo consenso.
La scelta dei governanti: una dura selezione
I futuri governanti vanno scelti tra i giovani guardiani attraverso prove durissime, mirate a verificare che sappiano mantenere il sapere del bene e del male, senza corrompersi.
Tre sono i pericoli da evitare:
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Essere derubati: dimenticare o mutare opinione.
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Essere ammaliati: cedere a piaceri o paure.
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Essere violentati: piegarsi al dolore fisico o morale.
Chi supera queste prove sarà degno di governare.
Il mito dei “nati dalla terra” e la fratellanza
Per rendere più coesa la società, Platone introduce il mito dei “nati dalla terra”: i cittadini devono credere di essere tutti fratelli, figli della stessa madre terra.
Le classi sociali – guardiani, ausiliari e produttori – sono flessibili: l’appartenenza dipende dal merito, non dalla nascita.
Comunione dei beni e delle donne
Per i guardiani, Platone propone la comunione dei beni e delle donne: nessuno deve possedere proprietà privata o formare legami familiari troppo forti, affinché l’amore per la famiglia non superi quello per lo Stato.
Attacco ai “nuovi medici”
Infine, Platone critica duramente i medici contemporanei, seguaci di Ippocrate.
Contesta il principio secondo cui i medici devono fare di tutto per salvare il paziente, anche se quest’ultimo è ormai inutile alla società. La medicina, per Platone, deve servire il bene comune, non il singolo individuo a ogni costo.
Quarto libro
Nel quarto libro della Repubblica, Platone – attraverso il dialogo di Socrate con Glaucone e Adimanto – affronta temi fondamentali per la costruzione dello stato ideale. Vediamo insieme i punti salienti, rielaborati e ampliati per una lettura più scorrevole.
La felicità dei Guardiani e il Bene Comune
Durante l’esposizione di Socrate sui doveri dei guardiani, Adimanto solleva un’obiezione: se ai guardiani è vietato possedere beni e godere di piaceri, la loro vita rischia di essere triste e infelice.
La risposta di Socrate è chiara: non conta la felicità del singolo gruppo, ma quella dell’intera comunità. L’obiettivo dello stato ideale è l’armonia dell’insieme, non il privilegio di pochi.
Unità e equilibrio economico: evitare le divisioni sociali
Socrate sottolinea che uno stato giusto deve evitare la nascita di due città contrapposte, quella dei ricchi e quella dei poveri, causa principale di lotte intestine.
Per mantenere l’unità, si adottano misure precise:
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Controllo delle ricchezze: evitare eccessi di povertà e ricchezza.
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Divieto di guerre di conquista: l’espansione bellica arricchisce pochi e rovina molti.
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Controllo delle nascite: la popolazione deve rimanere costante, in equilibrio con le risorse disponibili.
Difesa e alleanze strategiche
Il sistema militare dello stato ideale si fonda su due principi:
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I guardiani sono addestrati fisicamente e mentalmente, ma non possiedono beni, rendendo la città poco appetibile agli invasori (che non troverebbero bottini).
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In caso di guerra, lo stato concede ai suoi alleati il bottino, guadagnandosi amicizie durature invece di nemici.
L’educazione: pilastro della stabilità dello Stato
Platone insiste: l’educazione è il fulcro della stabilità politica e morale. Un buon sistema educativo genera:
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Cittadini giusti, capaci di contribuire al bene comune.
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Anime giuste e buone, ovvero individui che sanno controllare i propri impulsi attraverso la ragione.
Se l’educazione viene trascurata, lo stato collassa. Per ogni questione religiosa, inoltre, è necessario affidarsi alle indicazioni dell’oracolo di Delfi.
Glaucone propone di normare anche dettagli come l’abbigliamento o il taglio dei capelli dei guardiani, ma Socrate rifiuta: l’essenziale è l’anima, non l’apparenza.
Le quattro virtù fondamentali dello Stato
Costruito lo stato ideale, Platone si dedica all’analisi delle sue quattro virtù principali:
a. Sapienza
È la conoscenza che permette di guidare lo stato con saggezza.
È propria della classe dei governanti, la minoranza sapiente.
b. Coraggio
È la capacità di mantenere saldo il giusto timore delle cose, come inculcato dall’educazione.
Socrate usa l’analogia della tintura: come un colore ben fissato resiste agli agenti esterni, così il coraggio deve resistere alle paure.
Il coraggio appartiene ai guardiani.
c. Temperanza
La temperanza è l’autocontrollo dei desideri e dei piaceri.
È diffusa in tutte le classi sociali e rappresenta l’armonia tra chi comanda e chi obbedisce.
d. Giustizia
La giustizia è l’ordine interno dello stato, in cui ogni classe svolge il compito per cui è naturalmente portata, senza interferire con le altre.
È la virtù collettiva per eccellenza.
L’anima individuale: microcosmo dello Stato
Trovata la giustizia nello stato, Socrate passa ad analizzare quella nell’individuo.
Come nello stato ci sono tre classi, nell’anima umana ci sono tre componenti:
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La parte razionale (ragione)
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La parte irascibile (volontà, coraggio)
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La parte appetitiva (desideri materiali)
L’uomo giusto è quello in cui:
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La ragione guida, aiutata dalla parte irascibile.
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L’appetito è controllato, non domina sulle altre parti.
Se l’anima è in disaccordo e il desiderio vince sulla ragione, l’individuo è ingiusto. Così, la salute dell’anima rispecchia la giustizia nello stato.
Quinto libro
Il quinto libro della Repubblica segna uno dei momenti più affascinanti e radicali dell’intero dialogo platonico. È qui che Socrate, su richiesta di Adimanto, espone alcune delle idee più rivoluzionarie della sua teoria politica, idee che Platone stesso definisce “ondate” di pensiero: concetti destinati a sconvolgere ogni convenzione dell’epoca. Vediamoli insieme.
Le tre “ondate” rivoluzionarie
1. Uguaglianza tra uomini e donne
La prima “ondata” riguarda l’identità di educazione e compiti tra uomini e donne. Per Platone, il fatto che le donne siano, in media, fisicamente più deboli non giustifica alcuna differenziazione nei ruoli sociali o politici.
Come i maschi, anche le donne devono ricevere la stessa formazione, partecipare alle stesse attività, compresa la guerra, e aspirare agli stessi compiti di governo. Si tratta di un concetto sorprendentemente moderno: in un mondo dove la donna era confinata alla sfera domestica, Platone parla di parità di opportunità in nome del bene della città.
2. Comunanza di donne e figli
La seconda “ondata” è ancora più sconvolgente: Platone propone che donne e figli siano messi in comune tra i Guardiani (i guerrieri-custodi della città).
L’obiettivo è eliminare i legami familiari privati, che potrebbero creare divisioni e favoritismi, a scapito del bene comune. I matrimoni devono essere organizzati dai governanti secondo criteri di utilità statale: i migliori devono accoppiarsi con i migliori, favorendo così la nascita di una generazione forte e virtuosa.
Platone stabilisce anche limiti di età per la procreazione: tra i 20 e i 40 anni per le donne e tra i 30 e i 55 per gli uomini.
Oltre questi limiti, ogni figlio nato sarà affidato alla classe degli artigiani.
I bambini verranno cresciuti in orfanotrofi pubblici, senza conoscere i propri genitori, e saranno indirizzati verso il ruolo più adatto alle loro qualità. I migliori saranno educati come Guardiani, mentre gli altri formeranno le classi inferiori.
Una nota controversa riguarda il destino dei “peggiori”: Platone lascia intendere che coloro ritenuti inabili o deformi potrebbero essere segregati o eliminati — interpretazione che ancora oggi genera dibattiti tra gli studiosi.
3. Il governo dei filosofi
La terza ondata, la più radicale di tutte, afferma che solo i filosofi devono governare. In alternativa, i governanti devono diventare veri e propri filosofi.
Perché? Perché soltanto chi ama la verità e conosce ciò che è stabile e immutabile è in grado di guidare giustamente la città.
Platone definisce il filosofo come colui che ama il sapere nella sua totalità, distinguendolo nettamente da chi si limita a opinioni o percezioni effimere.
Tipi di conoscenza secondo Platone
Platone distingue tre forme di conoscenza:
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Ignoranza: mancanza totale di conoscenza.
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Scienza: conoscenza di ciò che è, ovvero l’essere stabile, eterno (il mondo delle Idee o eidos).
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Opinione: conoscenza di ciò che è e non è al tempo stesso, cioè il mondo sensibile, il divenire.
I filosofi della natura (physis) e i sofisti, secondo Platone, non rientrano tra i veri filosofi. I primi si limitano a indagare il mondo del divenire; i secondi, abbracciando il relativismo, negano l’esistenza di verità assolute. Entrambi, quindi, sono considerati filodossi — amanti dell’opinione, non della verità.
La formazione dei giovani Guardiani
I giovani destinati a diventare Guardiani devono partecipare fin da piccoli alle operazioni belliche, montando cavalli veloci e vivendo esperienze reali di guerra.
Il valore sarà premiato con onori, mentre la codardia verrà punita con il disprezzo. I più coraggiosi saranno trattati da eroi viventi e, dopo la morte, venerati come semidei.
È importante sottolineare la differenza che Platone introduce tra guerra e guerra:
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Guerre contro i barbari: da combattere senza pietà.
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Guerre tra Greci (Elleni): da trattare come semplici liti familiari, senza distruggere raccolti o profanare i cadaveri, ricordando che il vero nemico sono i capi e non il popolo.
Il quinto libro della Repubblica ci mostra un Platone radicale e provocatorio. Le sue idee sulla comunanza dei beni, sulla soppressione della famiglia e sull’eugenetica possono apparire oggi come inquietanti o distopiche.
Eppure, il suo obiettivo è sempre lo stesso: creare una città giusta, in cui ogni individuo contribuisce al bene comune secondo la propria natura.
Un’utopia forse irrealizzabile, ma che continua, da più di duemila anni, a farci riflettere su cosa significhi davvero una società giusta.
Sesto libro
Il sesto libro della Repubblica di Platone è uno dei più densi e affascinanti dell’intero dialogo, in cui Socrate definisce la figura del vero filosofo e ne traccia il ruolo fondamentale all’interno dello stato ideale. Lontano dagli stereotipi comuni del suo tempo, Platone attraverso Socrate delinea un profilo del filosofo come guida necessaria per la realizzazione di una società giusta e armoniosa.
Le qualità del vero filosofo
Secondo Socrate, il buon filosofo — distinto dal semplice “filodosso”, l’amante dell’opinione e non della verità — deve possedere una serie di qualità rare e preziose. Tra queste:
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Saggezza: la capacità di conoscere e orientarsi verso la verità.
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Coraggio: la forza d’animo per affrontare difficoltà e ostilità.
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Temperanza: il dominio di sé e dei propri desideri.
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Distacco dai beni materiali: l’indipendenza dalle ricchezze e dal potere.
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Prontezza ad apprendere: il desiderio costante di conoscere.
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Buona memoria: il ricordo vivido delle idee apprese.
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Grazia e bellezza: qualità fisiche e spirituali che riflettono l’armonia interiore.
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Magnanimità: la generosità e la grandezza d’animo.
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Amor di patria: il sincero desiderio del bene comune.
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Perspicacia e acutezza: la capacità di cogliere rapidamente la verità.
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Fermezza: la capacità di mantenersi saldi nelle proprie convinzioni.
La difficoltà di trovare filosofi autentici
Adimanto, interlocutore di Socrate, solleva un’obiezione significativa: filosofi con tutte queste doti sembrano essere estremamente rari, e anzi, i “filosofi” del suo tempo appaiono perlopiù inutili, ridicoli o addirittura corrotti.
Socrate ammette che questa è spesso la triste realtà. Tuttavia, attribuisce il degrado della figura del filosofo all’influenza negativa della società: il popolo ignorante, i sofisti — maestri di retorica e non di verità — e i demagoghi, corrotti e corruttori, agiscono sull’anima ancora giovane e vulnerabile dei futuri filosofi, portandoli a deviare dal cammino della saggezza. Un esempio emblematico è quello di Alcibiade, talentuoso ma rovinato dalla cattiva educazione.
L’analogia della nave
Per spiegare ulteriormente questa corruzione, Socrate utilizza la celebre analogia della nave: immaginate una nave in cui l’armatore è forte ma mezzo cieco e poco esperto di navigazione; l’equipaggio litiga per il timone senza avere vera conoscenza dell’arte nautica, mentre il vero timoniere — il filosofo — viene deriso o ignorato. Così è lo stato in cui il filosofo non viene riconosciuto e valorizzato.
La formazione del filosofo e lo stato ideale
Nel mondo imperfetto, dice Socrate, anche i filosofi migliori spesso non riescono a realizzarsi pienamente: l’educazione, che dovrebbe iniziare fin da giovanissimi, viene spesso trascurata, e il percorso verso la dialettica — la fase più alta e difficile dello sviluppo filosofico — viene abbandonato o mal condotto.
Solo in uno stato perfettamente ordinato, in cui l’educazione è interamente finalizzata alla conoscenza del vero e del bene, il filosofo potrà realizzare la propria natura. In questo stato ideale, il filosofo tende a “l’assimilazione al divino”, ovvero a vivere secondo il modello eterno e immutabile degli eidos, le forme pure.
Il problema della conoscenza del Bene
Tuttavia, la realizzazione di tale stato è estremamente difficile, perché la comprensione del Bene in sé, principio supremo della realtà e della conoscenza, non può essere spiegata semplicemente o immediatamente.
Socrate allora introduce due celebri analogie:
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L’analogia del sole: come il sole consente la vista e la vita rendendo visibili le cose, così il Bene rende possibile la conoscenza e l’essere delle cose intelligibili.
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L’analogia della linea: la conoscenza si sviluppa lungo una linea che va dalla mera opinione alla vera scienza, fino alla comprensione suprema del Bene.
Il sesto libro della Repubblica è dunque un manifesto sulla natura autentica del filosofo, sui pericoli della corruzione sociale e sulla necessità di un’educazione rigorosa per costruire una società giusta. Platone invita a riflettere sulla difficoltà ma anche sulla necessità di cercare il Bene, come guida suprema per l’individuo e per la collettività.
Settimo libro
l settimo libro della Repubblica di Platone rappresenta uno dei vertici assoluti della filosofia occidentale. Qui Platone non solo espone il celebre mito della caverna, ma approfondisce il tema dell’educazione dei filosofi e la loro responsabilità nel governo della città ideale.
Il Mito della Caverna
Il libro si apre con il suggestivo mito della caverna, forse la più efficace sintesi del pensiero platonico. Gli uomini, incatenati fin dall’infanzia in una grotta, vedono solo ombre proiettate su una parete, scambiandole per la realtà. Solo attraverso un doloroso processo di liberazione e di ascesa verso il mondo esterno (la conoscenza del Bene) è possibile vedere le cose come realmente sono.
Questo mito ha molteplici livelli di interpretazione: è una metafora della condizione umana, del percorso educativo e della missione del filosofo, che, una volta “illuminato”, ha il dovere di tornare nella caverna per guidare gli altri.
I filosofi e il governo della città
Platone, attraverso la voce di Socrate, affronta un interrogativo fondamentale: una volta raggiunta la conoscenza del Bene, i filosofi vorranno lasciare la vita contemplativa per governare?
La risposta è netta: no, ma dovranno essere costretti a farlo per il bene della città. La filosofia, infatti, non deve essere fine a sé stessa, ma deve tradursi in azione politica, affinché la polis sia retta da chi ha davvero la visione del giusto.
Il percorso di educazione del filosofo
Platone disegna un lungo e rigoroso iter formativo per coloro che sono destinati a diventare veri filosofi-re:
1. Dalla Nascita ai 18 Anni: Ginnastica e Musica
I giovani ricevono un’educazione basata sulla ginnastica (cura del corpo) e sulla musica (cura dell’anima), per sviluppare armoniosamente forza fisica e sensibilità morale.
2. Dai 18 ai 20 Anni: Corso Intensivo di Ginnastica
Dopo l’educazione di base, i giovani affrontano due anni dedicati esclusivamente alla ginnastica, per consolidare forza, disciplina e coraggio.
3. Dai 20 ai 30 Anni: Studio delle Scienze
Superata una prima selezione, i migliori accedono a dieci anni di studio delle discipline propedeutiche alla filosofia:
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Matematica: indispensabile sia per fini militari sia per stimolare la mente verso l’intelligibile.
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Geometria piana: esercizio per contemplare l’essere e le idee, senza affidarsi ai sensi.
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Stereometria (geometria solida): ancora poco sviluppata all’epoca di Platone, ma da incentivare per le sue implicazioni filosofiche.
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Astronomia: da affrontare teoricamente, non come osservazione sensibile, ma come scienza dell’ordine e dell’armonia celeste.
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Armonia musicale: studio della teoria dei suoni come strumento per affinare la razionalità.
4. Dai 30 ai 35 anni: avvio alla dialettica
Dopo una nuova selezione, i candidati più promettenti iniziano lo studio cauto della dialettica, l’arte del ragionamento. Una pratica troppo precoce porterebbe a una sterile eristica: è quindi necessaria maturità.
5. Dai 35 ai 50 anni: studio approfondito della dialettica e contemplazione del Bene
Segue un lungo periodo in cui si perfezionano nello studio dialettico e contemplano il Bene, il fine ultimo della conoscenza.
Dopo i 50 anni: governo e filosofia
Infine, i filosofi, ormai formati, sono pronti a governare. Dedicheranno parte del loro tempo alla filosofia, ma la loro responsabilità principale sarà quella di guidare la città.
La difficile realizzazione della città ideale
Platone ammette che uno stato perfetto non potrà mai sorgere spontaneamente: solo un tiranno convertito alla filosofiapotrebbe attuare la riforma necessaria. Sarebbe infatti necessario rimuovere dalla città tutti i cittadini con più di dieci anni d’età e crescere i giovani secondo il nuovo ordinamento, creando così un circolo virtuoso che si autoconserverà.
Questo ideale politico si collega alla vita stessa di Platone, al suo tentativo di “educare” i tiranni di Siracusa attraverso l’amicizia con Dione, nel tentativo – purtroppo fallito – di trasformare un regno reale in una polis filosofica.
Il settimo libro della Repubblica non è solo una grande pagina di filosofia teorica: è anche un grido appassionato sulla responsabilità della conoscenza. Sapere non basta: occorre metterlo al servizio della collettività.
L’utopia platonica ci sfida ancora oggi: possiamo davvero rinunciare all’idea che i più saggi debbano anche essere i nostri governanti?
Ottavo libro
Nel Libro Ottavo della Repubblica, Platone affronta un tema cruciale: il progressivo decadimento dello stato ideale, quel modello perfetto di società governata dai filosofi. Dopo aver costruito l’immagine di una polis giusta e armoniosa, Socrate — voce narrante del dialogo — si interroga su come questa perfezione possa deteriorarsi nel tempo, generando forme corrotte di governo che, a loro volta, plasmano anime imperfette nei cittadini.
Il tempo della decadenza
Secondo Platone, il degrado dello stato perfetto non avviene subito: si manifesta dopo un lungo periodo, quantificato in 12.960.000 giorni, equivalenti a 36.000 anni (calcolati su un anno di 360 giorni). Questo numero non è casuale: deriva da complesse combinazioni matematiche che rispecchiano l’ordine cosmico.
Il messaggio è chiaro: anche ciò che è perfetto nel mondo terreno è destinato, prima o poi, a corrompersi.
Le forme di governo corrotte
Platone individua quattro forme principali di degenerazione politica, che emergono progressivamente dallo stato ideale:
1. La Timocrazia: il governo dell’onore
Il primo stadio di decadenza è la timocrazia, una forma di governo fondata sull’onore militare e sul culto della forza. Quando l’educazione filosofico-musicale viene trascurata e si privilegia la ginnastica (cioè la formazione militare), i governanti perdono la saggezza necessaria al comando.
Gli antichi guardiani iniziano a desiderare proprietà e potere personale. Pur restando formalmente vietato il possesso di oro, in pratica si impossessano di case e terreni, opprimendo il popolo. Un esempio storico che Platone porta è Sparta, simbolo della timocrazia.
2. L’Oligarchia: il governo dei ricchi
Con il tempo, l’amore per l’onore lascia il posto all’amore per la ricchezza. Si passa così all’oligarchia, dove il potere appartiene a pochi, scelti in base alla loro disponibilità economica e non per meriti o virtù.
Nell’oligarchia, la società si divide drasticamente in due città: quella dei ricchi e quella dei poveri. L’avidità dei governanti crea profonde disuguaglianze sociali, mentre la forza diventa lo strumento principale di governo.
3. La Democrazia: il governo della libertà sfrenata
La pressione delle masse oppresse conduce inevitabilmente alla rivolta. I poveri, sostenuti da briganti e criminali (i “fuchi”), si sollevano contro i pochi privilegiati, instaurando la democrazia.
In democrazia, tutte le cariche pubbliche sono assegnate a sorte e la libertà individuale diventa l’unico valore dominante. È una società varia, anarchica, piacevole, dove ciascuno vive come desidera. Tuttavia, proprio questa libertà illimitata, non temperata dalla saggezza, prepara il terreno al caos.
4. La Tirannide: il governo della paura
L’amore per la libertà si trasforma in un’ossessione. Il popolo, sospettoso di ogni forma di autorità, finisce per cercare protezione scegliendo un leader carismatico tra i fuchi: il tiranno.
All’inizio, il tiranno si mostra come un liberatore: abolisce i debiti, distribuisce terre, promette giustizia. Ma ben presto si trasforma nel peggiore dei despoti: elimina gli oppositori, mantiene il potere grazie a un esercito di mercenari e sfrutta il popolo attraverso tasse oppressive. La tirannide è l’ultima e più tragica forma di decadenza.
Le anime corrispondenti alle forme di governo
Oltre all’analisi politica, Platone esplora anche l’aspetto psicologico della degenerazione. A ogni tipo di stato corrisponde un tipo umano:
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L’uomo timocratico è dominato dall’ira e dall’ambizione, più attento all’onore che alla verità.
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L’uomo oligarchico reprime i suoi desideri non per razionalità, ma per avidità, cadendo in una “temperanza intemperante”.
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L’uomo democratico si lascia trascinare da ogni passione, senza ordine né gerarchia interiore.
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L’uomo tirannico è schiavo dei suoi desideri più bassi e violenti: la sua anima è disgregata e caotica.
Platone sottolinea come l’educazione sia il cardine della formazione dell’anima e della stabilità dello stato: quando essa viene trascurata o indirizzata male, il declino è inevitabile.
Nel Libro Ottavo della Repubblica, Platone offre non solo un’analisi politica, ma anche una profonda riflessione sulla natura umana. La perfezione è fragile, e solo un costante impegno nell’educazione, nella razionalità e nella giustizia può preservarla. L’alternativa è un inevitabile scivolamento verso forme sempre più corrotte di governo, fino al completo disfacimento dello stato e dell’anima.
Nono libro
Nel Libro IX della Repubblica, Platone prosegue la sua indagine sull’anima umana, mettendola a confronto con i diversi modelli di governo. Dopo aver analizzato i regimi precedenti, giunge ora a descrivere l’uomo tirannico, la forma più degenerata e infelice tra tutte.
La nascita del tiranno: dalla democrazia alla tirannide
Il tiranno nasce dal ventre stesso della democrazia. Cresciuto in un ambiente che esalta la libertà, l’uomo democratico si lascia facilmente trascinare da desideri sempre più sfrenati. Quando questi appetiti incontrollati prevalgono sulla ragione e sulla moderazione, emergono caratteri tirannici.
L’uomo che si abbandona a “libertà sfrenate”, frequenta cattive compagnie e sperpera il suo patrimonio, finisce per soverchiare perfino i suoi genitori con la violenza pur di ottenere nuove ricchezze. È la trasformazione inesorabile: dal cittadino libero all’individuo dominato dall’eros e dalla bramosia.
Il carattere del tiranno
Nell’anima del tiranno, i desideri più bassi e irrazionali prendono il sopravvento. La sua esistenza è un susseguirsi di misfatti: contro la propria famiglia, contro i suoi simili, contro la città. Non conosce freno né vergogna, e vive schiavo delle proprie passioni.
Come lo stato governato dalla tirannide è povero, oppresso dalla paura e dalla miseria, così anche l’anima del tiranno è dilaniata dall’angoscia: teme di essere tradito, di perdere il potere, di venire ucciso dal popolo che ha reso schiavo. La sua vita si trasforma in un continuo stato di terrore.
Le tre categorie di uomini: sapienza, onore e guadagno
Platone distingue tre principali categorie di uomini, in base alla parte dell’anima che prevale in loro:
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Gli amanti del sapere: mossi dalla razionalità e dal desiderio di verità.
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Gli amanti dell’onore: guidati dal coraggio e dalla ricerca del riconoscimento sociale.
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Gli amanti del guadagno: dominati dai desideri materiali e dal profitto.
Tra questi, il filosofo — amante del sapere — è colui che prova il piacere più autentico e duraturo. La sapienza non solo conduce agli onori, ma supera anche la ricerca del guadagno, poiché il piacere della conoscenza si manifesta fin dalla giovane età e accompagna tutta la vita.
Il filosofo è 729 volte più felice del tiranno
Platone introduce un calcolo simbolico per descrivere la distanza abissale tra il filosofo e il tiranno. Ogni volta che un’anima si allontana dal suo stato ideale, triplica la propria infelicità. Il tiranno, trovandosi tre gradi di separazione rispetto al filosofo, è dunque 3³ × 3³ = 729 volte più infelice.
La ragione di questo abisso risiede nella struttura stessa dell’anima: dove il filosofo ha ordinato appetito, coraggio e ragione in perfetta armonia, il tiranno ha consegnato il comando agli appetiti più bestiali, riducendo la parte razionale a schiava.
La tripartizione dell’anima e la via alla felicità
Con una vivida similitudine, Platone descrive l’anima come una creatura tripartita:
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Un essere umano rappresenta la ragione.
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Un leone simboleggia il coraggio (la parte irascibile).
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Un mostro polimorfo incarna la brama e gli appetiti sfrenati.
La felicità consiste nell’armonia tra queste tre componenti: la ragione deve guidare, il coraggio deve essere il suo alleato e gli appetiti devono essere moderati e regolati.
Il filosofo, realizzando questa struttura ordinata nell’anima, costruisce dentro di sé quella città ideale che Platone aveva teorizzato nei libri precedenti. Ed è così che egli raggiunge una felicità solida e piena, in contrasto radicale con la miseria del tiranno.
Decimo libro
Il Libro Decimo della Repubblica di Platone si presenta come un’opera a sé stante, diversa nel tono e nei contenuti rispetto al resto del dialogo. Spesso considerato un’aggiunta o una sorta di appendice, questo libro approfondisce e radicalizza alcuni temi già trattati, introducendo riflessioni nuove e, in certi casi, persino in contraddizione con affermazioni precedenti.
Un’appendice polemica
Rispetto ai libri precedenti, il decimo si distingue per uno stile meno armonico e una forza polemica più marcata. Alcuni studiosi ritengono che qui Platone raccolga argomentazioni meno raffinate, tanto da essere considerate tra le peggiori dei suoi scritti. Tuttavia, l’obiettivo sembra essere quello di chiudere il grande progetto della Repubblica ribadendo e rafforzando alcune idee fondamentali, soprattutto in merito all’arte, all’anima e alla giustizia.
La condanna definitiva dell’arte
Platone riprende e accentua la sua critica all’arte, già introdotta nei libri precedenti. Non si limita più a escludere le opere che esaltano vizi o passioni; ora viene condannata tutta l’arte imitativa, compresa quella che rappresenta soggetti nobili e virtuosi.
Per spiegare meglio il concetto, Platone utilizza l’esempio del letto:
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Idea del letto: esiste come modello perfetto, eterno e immutabile.
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Letto costruito: è una copia imperfetta dell’idea, realizzata dall’artigiano.
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Dipinto del letto: è una copia della copia, dunque si allontana ulteriormente dalla verità.
L’arte, quindi, si occupa dell’apparenza e non della verità, ed è “tre volte lontana” dall’essere autentico. Gli artisti, in questo schema, non possiedono né scienza (che spetta a chi sa usare davvero l’oggetto) né fede (che appartiene all’artigiano), ma si fermano a una semplice opinione (doxa).
L’arte come pericolo per l’anima
L’attacco si fa ancora più duro nei confronti della poesia drammatica, sia tragica sia comica. Secondo Platone, vedere rappresentate passioni ed emozioni ha l’effetto di liberare nell’animo dello spettatore le proprie pulsioni irrazionali, indebolendo il controllo della ragione. L’arte, in definitiva, non solo inganna, ma corrompe l’anima.
La dimostrazione dell’immortalità dell’anima
Nella seconda parte del libro, Platone si concentra su un tema cruciale: l’immortalità dell’anima. Procede attraverso un ragionamento sottile:
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Ogni cosa è distrutta dal suo proprio male: il ferro dalla ruggine, il legno dai tarli.
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Il male specifico dell’anima è l’ingiustizia.
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Tuttavia, anche un’anima ingiusta, come quella del tiranno, non viene annientata dall’ingiustizia.
Se l’anima non viene distrutta dal proprio male, tanto meno può essere distrutta dai mali del corpo. Essa quindi sopravvive alla morte del corpo.
Un’anima da contemplare pura
Questa dimostrazione, però, si scontra con la precedente rappresentazione dell’anima come tripartita (razionale, irascibile e concupiscente). Socrate ammette che l’anima, nella sua essenza più pura, potrebbe essere diversa da come l’abbiamo conosciuta finora. Per comprenderla veramente, sarebbe necessario vederla “depurata” dal corpo e dai desideri materiali, un concetto suggerito dal mito di Glauco: il mostro marino che, incrostato da alghe e conchiglie, cela sotto la superficie la sua vera natura.
Il Mito di Er
La parte finale del libro è occupata dal suggestivo Mito di Er, un racconto che illustra il destino delle anime dopo la morte. Er, un guerriero caduto in battaglia, ritorna miracolosamente in vita per raccontare ciò che ha visto nell’aldilà:
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Le anime vengono giudicate e inviate a un periodo di ricompensa o punizione.
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Dopo mille anni, esse scelgono una nuova vita da vivere.
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Le scelte sono determinanti: alcune anime, ingannate dalle apparenze, scelgono vite peggiori; altre, più sagge, scelgono con prudenza.
Il mito si chiude su un potente ammonimento: solo il giusto è felice, sia in questa vita sia nell’altra.
Altre opere di Platone commentate su Bassaparola:
- Apologia di Socrate – Socrate si difende dalle accuse di corruzione dei giovani e di empietà, sostenendo la propria innocenza e dichiarando di non temere la morte.
- Simposio – Una serie di discorsi sull’amore, culminanti nella concezione dell’amore come desiderio di conoscenza e bellezza assoluta.
- Gorgia – Critica la retorica sofistica e discute la relazione tra potere e giustizia, sostenendo la superiorità della vita giusta.
- Eutifrone – Socrate chiede cosa sia la pietà e, spoiler, non ottiene una risposta. Un capolavoro di confusione socratica vestita da logica implacabile.
- Critone – Socrate, in prigione, discute con Critone sull’importanza di rispettare le leggi, rifiutando la proposta di fuga e accettando la condanna a morte.
- La Repubblica – Esamina la natura della giustizia e descrive lo Stato ideale, introducendo la teoria delle idee e il mito della caverna.
- Fedone – Nell’ultimo giorno di vita di Socrate, si affronta il tema dell’immortalità dell’anima e della filosofia come preparazione alla morte.
- Sofista – Analizza la figura del sofista e la distinzione tra essere e non essere, approfondendo la natura dell’errore e dell’apparenza.
- Protagora – Sofisti contro filosofi: Platone racconta un dibattito epico sulla virtù. La virtù si può insegnare?
- Timeo – Offre una cosmologia in cui il Demiurgo ordina il caos secondo modelli eterni, creando un cosmo armonioso.
- Lachete – Socrate chiede a due generali cosa sia il coraggio, ma finisce per confonderli. Un dialogo breve che dimostra che Platone sapeva rendere anche i guerrieri filosofi.
- Crizia – Racconta la storia di Atlantide e della sua guerra contro l’antica Atene, presentando una civiltà avanzata poi scomparsa.
- Filebo – Esamina il confronto tra piacere e intelligenza nella ricerca della vita felice, sostenendo la superiorità dell’intelletto.
- Menone – Indaga se la virtù possa essere insegnata, introducendo la teoria della reminiscenza e l’idea che la conoscenza sia innata.
- Politico – Discute la natura del vero politico e il ruolo della scienza politica nel governare, distinguendo tra diverse forme di governo.
- Teeteto – Esplora la natura della conoscenza, esaminando definizioni come “conoscenza è percezione” e “conoscenza è opinione vera”.
- Leggi: Ultimo e più lungo dialogo, propone un sistema legislativo per una città ideale, enfatizzando l’importanza delle leggi nella vita sociale.
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