La storia di Berenice di Rodi – conosciuta anche come Callipatera – è un raro esempio di coraggio femminile e sfida alle rigide regole del mondo antico. Vissuta nel IV secolo a.C., Berenice è ricordata per aver infranto il divieto imposto alle donne sposate di assistere ai Giochi Olimpici, rischiando la pena di morte pur di sostenere il figlio, che lei stessa aveva allenato. In un’epoca in cui la presenza femminile era relegata alla sfera domestica e alle celebrazioni religiose, la sua audace impresa resta un episodio straordinario di autodeterminazione e amore materno.
Berenice proveniva da una delle famiglie atletiche più illustri della Grecia antica. Suo padre era Diagora di Rodi, leggendario pugile e vincitore a Olimpia nel 464 a.C., celebrato da Pindaro nella sua VII Ode Olimpica. Diagora non fu solo un campione, ma anche un eccellente allenatore: i suoi figli, Damagetos, Akousilaos e Dorieus, furono tutti pluricampioni in diverse discipline, dal pugilato al pancrazio. La tradizione sportiva della famiglia non si fermò ai soli uomini: anche Berenice fu probabilmente incoraggiata all’atletica fin da giovane e, prima del matrimonio, potrebbe aver partecipato ai Giochi Erei, dedicati alla dea Era.
Con il matrimonio, però, le regole cambiavano radicalmente: per le donne sposate era assolutamente vietato non solo gareggiare, ma persino assistere alle Olimpiadi. Le leggi dell’Elide stabilivano pene severissime: chi fosse stata sorpresa anche solo a trovarsi nei pressi dello stadio durante i giorni dei Giochi sarebbe stata gettata dal Monte Tipeo. Le uniche eccezioni erano le sacerdotesse di Demetra. Nonostante il rischio, Berenice non si tirò indietro quando il marito – anche lui atleta – morì, lasciando il giovane figlio Peisirodo da solo nel cammino verso la gloria olimpica.
Determinata a onorare la tradizione familiare e a preparare Peisirodo per la vittoria, Berenice assunse il ruolo di allenatrice, posizione esclusivamente maschile all’epoca. Travestita da uomo, prese parte alla processione da Elide a Olimpia e seguì il figlio fino alla vittoria nell’agone di pugilato del 388 a.C. L’esultanza per il trionfo fu però fatale al suo travestimento: scavalcando la transenna per abbracciare il figlio, la tunica si impigliò e cadde, rivelando la sua identità femminile. Condotta dinnanzi ai giudici, Berenice non negò nulla e, ricordando la storia gloriosa della sua famiglia, ricevette la grazia.
Quell’atto di clemenza fu eccezionale. La sua azione, infatti, rischiava di mettere in discussione il rigido assetto maschile delle competizioni olimpiche. Solo pochi anni prima, Cinisca di Sparta aveva già sfidato le convenzioni vincendo nella corsa dei carri, benché la sua presenza fosse permessa perché proprietaria – non auriga – del carro. Il gesto di Berenice andava oltre: non si limitava a finanziare un team, ma rivendicava un ruolo attivo e professionale, quello dell’allenatrice.
Le autorità, piuttosto che rivedere i ruoli di genere nei Giochi, risposero in modo drastico: da quel momento in avanti, anche gli allenatori sarebbero dovuti entrare nello stadio completamente nudi, così da impedire il ripetersi di simili inganni. Il significato di quanto compiuto da Berenice fu quindi ridimensionato e trasformato in un episodio curioso, quasi folkloristico, anziché riconoscerne la portata rivoluzionaria.
Col tempo, il suo nome fu oggetto di confusione. Alcune fonti la chiamano Callipatera, interpretato da alcuni studiosi come un soprannome affettuoso postumo – “di buon padre” – in riferimento al suo coraggio e all’impegno verso il figlio, qualità allora attribuite agli uomini. Altri sostengono che Berenice e Callipatera fossero due donne distinte, forse sorelle, ma la versione più accreditata è che si tratti della stessa persona. Qualunque sia la verità, Berenice rimane una figura emblematica, non solo per la sua famiglia, ma per la storia dell’atletica e della condizione femminile nell’antichità.
Oggi la memoria di Diagora e della sua famiglia è ancora viva a Rodi, dove sia lo stadio che l’aeroporto portano il suo nome. Ma la storia di Berenice – quella donna che si travestì da uomo per allenare suo figlio e sfidare le leggi – merita anch’essa un posto nella memoria collettiva. È la testimonianza di come, anche nei tempi più rigidi, vi siano stati gesti di straordinario coraggio e amore capaci di lasciare un segno, anche quando le istituzioni tentarono di seppellirli sotto nuove regole e vecchi pregiudizi.