Dopo la morte di Achille e la perdita di Aiace, tra i Greci cresceva il timore: se non erano riusciti a sconfiggere i Troiani quando i loro guerrieri più valorosi erano ancora in vita, come avrebbero potuto farlo ora, privi del loro aiuto? A quel punto Odisseo si rivolse all’indovino Calcante per avere consiglio. Questi offrì conforto: la città di Troia poteva ancora essere conquistata, ma solo se i Greci avessero combattuto con le armi di Eracle.
Eracle, il più grande tra gli eroi greci, era vissuto una generazione prima della guerra di Troia. Era morto tragicamente per colpa della moglie Deianira, che, temendo di essere abbandonata per un’altra donna, gli aveva fatto indossare una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso. In punto di morte, il centauro le aveva detto che quel sangue aveva il potere di far innamorare, ma era solo un inganno. Il veleno contenuto nel sangue causò ad Eracle dolori insopportabili, tanto che decise di porre fine alla sua vita. Fece costruire una pira, vi salì sopra e ordinò ai servitori di accenderla. Nessuno voleva compiere un gesto tanto crudele, finché si fece avanti Filottete, che obbedì alla richiesta dell’eroe. In segno di gratitudine, Eracle gli donò il proprio arco e le frecce avvelenate con il sangue dell’Idra.
Filottete, tuttavia, era stato abbandonato dai Greci sull’isola di Lemno, perché una ferita infetta causata dal morso di un serpente lo rendeva invivibile agli altri a causa del fetore e delle grida di dolore. Era dunque lui l’eroe in possesso delle armi di Eracle, colui che avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra.
Odisseo e Diomede si offrirono di raggiungerlo per convincerlo a tornare. Ma Filottete li accolse con rabbia e dolore: erano stati proprio loro, insieme agli altri compagni, ad abbandonarlo. Quando seppe che ora avevano bisogno di lui, rifiutò l’aiuto, felice di poter finalmente ricambiare l’offesa subita.
Odisseo, astuto com’era, comprese che Filottete non avrebbe mai combattuto per amor di patria, ma forse lo avrebbe fatto per un vantaggio personale. Gli parlò quindi della possibilità di guarire: il medico greco Macaone aveva scoperto un rimedio per curare la sua ferita. Gli chiese se preferisse restare solo a Lemno, in preda al dolore, oppure tornare tra i suoi, ricevere cura, e contribuire alla vittoria.
Alla fine, Filottete si lasciò convincere. Fu accolto con entusiasmo dai Greci e Macaone, con le sue conoscenze mediche, riuscì effettivamente a guarirlo. Per la prima volta dopo dieci anni, l’eroe non sentiva più dolore. Grato al medico, decise di ripagare il gesto tornando in battaglia.
Durante uno scontro, scorse Paride e lo colpì con una delle frecce di Eracle. Il principe troiano, colto di sorpresa, cadde a terra privo di vita. Poco dopo, Menelao si fece avanti sul suo carro. Quando vide il corpo di Paride, lo riconobbe e lo insultò per aver causato una guerra tanto lunga e cruenta. Accecato dalla rabbia, lo colpì ripetutamente con la spada, infierendo sul suo cadavere fino a sfigurarne il volto.
Alla fine della battaglia, i Greci si ritirarono. I Troiani, impietositi, recuperarono i resti del loro principe, li avvolsero in un sudario e gli concessero una degna sepoltura, restituendogli l’onore in morte che aveva perso in vita.