CERVIGNANO 1 MAGGIO. Applauditissimo il discorso del 19enne Emanuel Oian

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Si chiama Emanuel Oian e ieri, primo Maggio, il suo discorso ha conquistato la piazza di Cervignano del Friuli. Prima di rimbalzare sui social e’ stato seguitissimo anche via streaming. In molti si sono chiesti chi fosse quel giovane studente 19enne che e’ persino riuscito a svegliare qualche coscienza e a far applaudire piu’ volte Mauro Travanut che certo non e’ di facili gusti intellettuali.

I social, strumento in mano alla gente, hanno premiato lo studente capace di farsi ascoltare dalla piazza e da un palco ricco di autorità dove pochi sono in grado di interpretare il significato di disoccupazione, di perdita del lavoro, di voucher, di reinventarsi.

Chi invece conosce queste realta’ non puo’ che ringraziare Emanuel che ha saputo parlare non solo per la sua generazione ma anche per chi ha 30, 40, 50… anni.

In calce il discorso di Emanuele Oian (Fonte pagina Facebook di Emanuel Oian)

”Cari lavoratori e care lavoratrici, cari compagni e care compagne, vi ringrazio per l’invito in questa bella cornice di Cervignano! Mi è stato chiesto di intervenire sulla situazione della mia generazione e sulla condizione lavorativa che ci aspettiamo dal futuro, mi scuserete se mi allargherò un po’ con gli argomenti ma voglio condividere con voi alcuni ragionamenti. La mia generazione di giovani precari viene da anni molto complessi e le prospettive lavorative non sono certo ottimiste, come ben sappiamo. Sono tanti, troppi, i cervelli in fuga dal nostro paese e dalla nostra regione. Quasi 5000 corregionali sono andati a cercare fortuna all’estero nel 2014, più di 4000 mila nel 2015, stime al ribasso dato che molti non si iscrivono ai registri dell’Aire. Sono numeri importanti se paragonati alla popolazione della nostra regione. Si stima che i connazionali scappati all’estero nel 2016 ammontino a 115 mila, nel 2015 erano 107 mila, nel 2010 solo 40 mila. Il numero di chi non trova prospettive ideali di vita e di lavoro è triplicato in soli sei anni. Ho molti amici che non solo andranno a studiare all’estero ma hanno intenzione di rimanervi perché un futuro qua non lo vedono proprio. Hanno ragione. Pesano come macigni le politiche del lavoro degli ultimi anni. Politiche controproducenti che hanno soltanto diviso ulteriormente i già precari, in precari di serie A e precari di serie B. Quasi il 40% dei giovani non lavora, contro una media europea del 22% , chi perde le speranze di cercare lavoro e smette difatti di cercarlo è in crescita. Tutti noi abbiamo impresse le parole di Michele, il giovane friulano stanco di sopravvivere. Dopo quella tragedia ho visto tante lacrime di coccodrillo da parte degli autori delle politiche di austerità e di compressione dei diritti verso il basso. Come fa una Repubblica democratica facente parte dell’Unione Europea e del G7, avere un ministro delle politiche del lavoro e delle politiche sociali che afferma frasi della serie ”Bene così: conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi.”,”Trovare un lavoro? Meglio giocare a calcetto”, “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico: è meglio un 97 a 21”. Come facciamo a fidarci di questa politica? Come facciamo ad essere ottimisti sul futuro? Al netto di tutte queste disgrazie la mia è una generazione ribelle e profondamente incazzata. Il 4 dicembre lo ha dimostrato votando in massa NO al referendum costituzionale, quasi 8 under 34 su 10 hanno votato no. Un segnale importante che indica una buona salute della nostra Costituzione e dei valori costituzionali fra noi giovani. Tra il 2014 e il 2015 eravamo in centinaia di migliaia in tutte le piazze d’Italia, a fianco dei docenti e del personale Ata, per avvertire il paese che ”la legge 107” se fosse passata sarebbe stata una pessima riforma della scuola. Avevamo ragione, chi conosce un minimo la realtà delle scuole, anche in Friuli, sa benissimo che l’Alternanza scuola lavoro, per dirne una, è diventata un incubo per molti professori; e dal nostro canto non possiamo che incazzarci quando scopriamo che oltre il 70% dei fondi che mandano avanti una scuola di medio-grandi dimensioni provengono dalle elargizioni libere dei genitori, attraverso il contributo volontario. Di fronte ad oltre due milioni di giovani Neet (giovani che non lavorano e non studiano) e di fronte a troppi giovani che abbandonano la scuola prima della fine del corso di studi abbiamo l’assenza di misure schock per garantire il diritto allo studio e l’accesso a dei lavori di qualità. Il 25 ottobre 2014 eravamo un milione a Roma, di cui tantissimi studenti e studentesse per fermare il Jobs Act e stare a fianco dei lavoratori. Dicevamo che liberalizzare i licenziamenti, precarizzare perfino il contratto a tempo indeterminato ed elargire ingenti bonus per assunzioni triennali non avrebbero portato un lavoro di qualità, ben retribuito e dignitoso. Anche qua a nostro malgrado avevamo ragione. C’è chi diceva che l’articolo 18 era roba da vecchi e bloccava le assunzioni e gli investimenti in Italia. Quando sappiamo benissimo che sono le politiche di austerità, la corruzione, l’infiltrazione della mafia, i tempi lunghi della giustizia, la mancanza di investimenti pubblici intelligenti e la scarsa innovazione della classe imprenditoriale italiana i motivi per cui gli investimenti privati sono al palo. Nei primi due mesi del 2017 i licenziamenti disciplinari sono aumentati del 30% rispetto ai primi due mesi del 2016, e del 65% rispetto il periodo analogo del 2015 quando il Jobs act non era ancora in vigore. Le assunzioni del jobs act erano dipendenti solo dagli ingenti sgravi contributivi. Si stima che ogni nuovo occupato sia costato alle casse dello Stato circa 50mila euro. Una simulazione estremamente puntuale dei costi della decontribuzione (formulata nelle ipotesi di diversa durata delle assunzioni), ha fissato un costo variabile tra i 14,6 e i 22,6 miliardi in tre anni. Mi chiedo, con questa ingente somma, quanti posti di lavoro dignitosi e duraturi avremmo potuto creare? Abbiamo un disperato bisogno di mettere in sicurezza il nostro paese non tanto dalle calamità naturali ma dalla stupidità di noi umani che abbiamo costruito selvaggiamente dappertutto. Servirebbe un grande New Deal, impiegando dai figli in cerca di lavoro ai genitori tagliati fuori da prospettive stabili. Non grandi opere ma piccole opere pubbliche in tutti i comuni. Gli investimenti pubblici nel medio-lungo periodo sono al palo e questi ultimi governi non hanno disegnato neanche una parvenza di politica industriale per il futuro. La cancellazione dei voucher è stata senza dubbio una buona notizia visto che sono diventati uno strumento precario dilagante nel mercato del lavoro. Oltre 145 milioni di voucher venduti solo nel 2016. Meno del 2% di quella cifra è stata impiegata nell’agricoltura, settore per il quale erano nati. Bisogna ringraziare la Cgil per questa grande e non scontata sfida, vinta da noi tutti. Un’altra questione importante è quella della povertà crescente sia fra chi lavora (i cosidetti working poor) e fra chi non lavora. L’Istat fotografa una situazione allarmante, dove oltre sette milioni di persone vivono in una condizione di deprivazione materiale. Nel 2016 i minori in condizione di «grave deprivazione», dati Istat, risultavano essere 1 milione e 250 mila. La povertà assoluta avvolge in una drammatica spirale 4,6 milioni di persone nel nostro paese. Credo che di fronte a queste cifre occorre ragionare sull’istituzione di un reddito di dignità che garantisca un minimo di emancipazione a chi è costantemente ricattato dai lavoretti a 2 euro all’ora. Reddito minimo garantito che tra l’altro è garantito -scusate il gioco di parole- ai bisognosi in tutti i paesi d’Europa fuorché l’Italia. Non è assistenzialismo ma dignità ed emancipazione dallo sfruttamento crescente. Forse sarebbe il caso di rispolverare il vecchio slogan ”lavorare meno lavorare tutti”, aggiungendoci un non troppo utopico ”guadagnando di più”. In Italia la media di ore lavorate all’anno è di 1752 contro le 1388 tedesche, quasi 400 ore in più, e nonostante ciò gli stipendi dei lavoratori italiani sono inferiori di circa 17mila euro rispetto a quelli dei colleghi tedeschi. Forse dovremmo redistribuire il lavoro, diminuire le ore settimanali, porre dei seri salari minimi e spostare gran parte della tassazione dal lavoro alle grandi ricchezze, stantie e ininfluenti sui consumi. Cari compagni forse sono solo speranze di un giovane diciannovenne però mi sembrava giusto condividerle con voi in questo giorno di festa e di speranza. Buon Primo maggio a chi un lavoro c’è l’ha e un speranzoso buon primo maggio a chi un lavoro lo cerca. Buon primo maggio a chi non ha smesso mai di lottare per un avvenire migliore!

Mandi a tutti!”